Il frutto avvelenato è caduto dalla tavola imbandita da Erdogan. E Gennaro Sangiuliano lo documenta in maniera precisa, senza trincerarsi dietro il politically correct, ma tracciando del Sultano un profilo difficilmente confutabile. Quello di un tiranno in doppiopetto. La recensione di Gennaro Malgieri
“Chi conquista Istanbul si prende la Turchia”, diceva Recep Tayyip Erdogan alla vigilia elettorale nel 1994. Diventò sindaco della città del Bosforo, capitale morale e culturale del Paese, e scontati i guai giudiziari che sembravano frenarne la corsa verso il potere, poco dopo diventò il padrone assoluto della Turchia.
Questa irresistibile ascesa, segnata da una battuta d’arresto elettorale amministrativa alla fine del 2018, quando si affermò come sindaco di Istanbul Ekrem Imamoglu, che ottenne il 48%, venticinquemila voti più dell’avversario Binali Yldirim, ex-premier ed esponente di punta del partito islamista di Erdogan Akp, venne salutata dagli oppositori come l’avvio di un processo di democratizzazione che si dissolse rapidamente, grazie al pugno duro del padre-padrone della Turchia. Non fu dunque il primo segnale concreto della fine di un regime che dura da più di vent’anni, (Erdogan è il più longevo autocrate del mondo insieme con Putin) contro il quale la variegata opposizione che manifestò la propria forza nel maggio 2013 con le contestazioni ed i disordini di piazza Taksim a Istanbul, originati dalla difesa di Gezi Park destinato ad una selvaggia lottizzazione per la costruzione di un centro commerciale.
La protesta ambientalista finì per diventare un atto d’accusa contro le politiche islamiste e repressive di Erdogan. Le cariche della polizia furono sproporzionate e provocarono cinque morti, ottomila feriti, duemila arresti in soli tre giorni. Il mondo scoprì soltanto allora il vero volto di Erdogan.
IL VOLUME DI SANGIULIANO
Le incommentabili gesta di Recep Tayyip Erdogan sono a disposizione di chi volesse conoscerle grazie al libro, eccellente politicamente, analiticamente e ricco di particolari sconosciuti, di Gennaro Sangiuliano, appena uscito: Il Sultano (Mondadori, pp. 256, € 20). Un libro che si legge con il piacere di una storia (come peraltro sono tutte le biografie firmate da questo autore fecondo e dotato di una scrittura impeccabile) che ha la fisionomia di un thriller politico dal quale si evince il volto multiforme del presidente ottomano.
Agli esordi della sua ascesa politica, si mostrò come un governante dotato di buone intenzioni e apparentemente legato alla tradizione kemalista. Prima sindaco di Istanbul, poi presidente, infine autentico oppressore delle minoranze e ambizioso despota dedito alla costruzione delle più ardite alleanze, incurante del discredito internazionale, ma che può contare sulla “simpatia” dei suoi sodali che gli reggono i molti giochi diplomatici: questi i caratteri che Sangiuliano lumeggia con grande padronanza descrittiva come se si fosse sempre occupato di lui. In realtà lo studioso mostra il pregio di comprendere dalle vite che illustra l’animo profondo dei suoi personaggi e perciò riesce a dare un quadro inconfutabile delle mire dei soggetti che studia con grande passione immergendosi nelle ricerche difficilmente paragonabili a quelle che vengono pubblicate negli altri Paesi.
Quando consolidò il suo potere, Erdogan gettò nel Bosforo le vesti del mite e lungimirante governante. E non fece nulla per nasconderlo. In una intervista, riportata da Sangiuliano, al quotidiano Milliyet, senza alcun imbarazzo sostenne che “la democrazia è come un tram: quando raggiungi la tua fermata scendi”. Lui è arrivato a destinazione. Non sappiamo quante fermate dovrà fare la Turchia, alla fine del suo ciclo storico-politico per tornare ad essere la nazione sognata e inventata da Mustafá, Kemal Atatürk.
LA POLITICA DI ERDOGAN
Erdogan incontrò giovanissimo il movimento islamista. Si legò a quello che diventerà suo mentore, Necmettin Erbakan militando nel partito politico da questi ispirato, per quanto dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale. Non si diede per vinto e gli cambiò il nome: Partito del Benessere nazionale, una menzogna politica. Il programma rimase sulla carta, l’ascesa del militante diventò irresistibile. Il ragazzo nato il 26 febbraio 1954 a Istanbul da una famiglia di umili origini, si fece immediatamente notare per l’intelligenza e la spregiudicatezza, protagonista, scrive Sangiuliano, “di una sensazionale scalata politica che lo ha portato ad essere un volto moderato e rassicurante dell’islamismo, a diventare progressivamente la guida di un regime sempre più autoritario”.
E soprattutto a coltivare il progetto della restaurazione dell’impero ottomano-islamico.
Per quanti sforzi facesse, comunque, l’islamizzazione forzata della laica Turchia non piaceva e non piace a tutti. E soprattutto non piace a chi non sopporta le limitazioni all’esercizio dei diritti costituzionali da parte del regime. I sostenitori di Imamoglu, l’uomo di Istanbul che lo battè nella sua stessa roccaforte, alla fine di conteggi elettorali contestati da ambo le parti, manifestarono la loro soddisfazione gridando per le strade della città: “Siamo i soldati di Atatürk”. Non era mai accaduto prima. Neppure negli anni della durissima dittatura militare.
Il nazionalismo “laico” kemalista ha radici profonde. Perfino Erdogan, soprattutto nella prima fase della gestione del potere, non ha potuto fare a meno di richiamarsi al padre della moderna Turchia. L’islamismo adesso, dopo le “purghe” del potere, dilaga; da alcuni anni si vedono sempre più donne velate per le strade delle grandi città, mentre l’integralismo è pressoché totale nelle aree periferiche e segnatamente nella regione anatolica dove il partito del presidente raccoglie i maggiori consensi. La chiusura dei giornali, la persecuzione degli intellettuali – tra i più famosi sono rimasti il premio Nobel Oran Pamuk e la scrittrice Elif Shafak a far sentire le loro voci – l’invenzione di nemici inesistenti dediti ad organizzare fantasiosi colpi di Stato contro Erdogan, il divieto, mai esplicito, di servire alcolici se non in luoghi appartati ed esclusivi come i grandi alberghi, la censura su qualsiasi manifestazione di dissenso hanno indotto la maggioranza dei turchi a “miti consigli”.
Le stesse elezioni amministrative del 2018, confermano questo stato di cose. Per quanto abbia perduto le maggiori città del Paese, compresa la capitale, Erdogan anche dopo la battuta d’arresto ha sempre potuto contare sul 55% dei consensi: non è poco, l’incidente (non aveva mai perso una elezione) testimonia una disaffezione che, secondo molti analisti, non gli avrebbe nuociuto, come poi è accaduto 2023, alle elezioni politiche generali.
L’opposizione in quella occasione si diede quattro anni di tempo per organizzarsi in un’unica coalizione che avrebbe dovuto sfidare l’Akp e l’isteronazionalismo di partitini che vivono all’ombra di Erdogan il quale le provò tutte per mantenere il potere come si conviene ad un autocrate neo-ottomano. Perse, ma grazie ai ricorsi alle compiacenti autorità giudiziarie, si reinsediò nel Palazzo presidenziale di Ankara con maggiore arroganza.
LE AMBIZIONI NEO-OTTOMANE
Tornando alle ambizioni neo-ottomane, l’ultima trovata a dispetto delle rassicurazioni periodicamente fornite alla comunità internazionale, è stato il ripristino del culto islamico di Santa Sofia che per esclusiva volontà di Erdogan è ridiventata moschea, dopo la trasformazione in museo voluta da Mustafà Kemal Atatürk nel 1935, come simbolo dell’identità turca le cui diverse “anime”, bizantina, ortodossa, islamica, avrebbero trovato nell’antico tempio la consacrazione della tolleranza laica perseguita tenacemente dal grande statista che Erdogan cerca di far dimenticare.
Il proposito, era funzionale alla campagna elettorale amministrativa che ha dato all’Akp, il partito del capo dello Stato, come si è detto, molti grattacapi. Quando un autocrate decide di mettersi contro il suo popolo violando il simbolo dell’unità nazionale vuol dire che ha perso la testa. Atatürk stabilì che il tempio sarebbe stato un museo della laicità, lasciando convivere nell’antica e suggestiva basilica, dirimpettaia della non meno suggestiva Moschea Blu, i simboli cristiani con quelli musulmani, consapevole che il luogo di culto non era dedicato ad una Santa, come si ritiene impropriamente, ma alla Sophia, cioè alla Divina Sapienza (in turco Ayasofya).
Il provvedimento venne salutato come l’inequivocabile segno di rottura con il passato ottomano. Erdogan, volendo ripristinare quel passato intendeva vendicarsi di quasi novant’anni di storia. “Non diremo più Museo di Santa Sofia, ma Moschea di Santa Sofia. Non si tratta di una proposta abnorme o di qualcosa di impossibile. Come moschea potrebbe essere anche visitata gratuitamente”, annunciò il giorno della grande decisione.
Erdogan, insomma, ha cercato di cancellare il complesso intrico di radici turche, mediterranee, veneziane, orientali, romane, elleniche e bizantine. Un errore che l’elettorato non ha apprezzato. Come non apprezza l’economia dal fiato corto, la lira turca che si svaluta da tempo, l’ondata di migranti dalla Siria che ha prodotto un clima di disagio, i sentimenti anti-occidentali rinfocolati dalla classe dirigente. Dieci anni fa, in occasione della commemorazione della Battaglia di Gallipoli del 1915, dove, contro le truppe turche morirono anche migliaia di soldati australiani, Erdogan pronunciò un discorso particolarmente bellicoso. Tra l’altro disse: “Siamo qui da mille anni e, a Dio piacendo, ci rimarremo fino all’Apocalisse. Non farete diventare Istanbul Costantinopoli. I vostri antenati sono venuti qui e sono tornati nelle bare. Non dovete avere dubbi sul fatto che vi rimanderemo indietro come loro”.
Un discorso rivolto al mondo che si oppone alla sua autocrazia che non gli è bastato, evidentemente, per far intendere le sue reali intenzioni. Ha “riscoperto”, dunque, Santa Sofia per rendere ancor più intellegibile il suo pensiero. E così, dimostrando una abissale ignoranza ha trascurato di ricordare che il tempio dedicato alla Divina Sapienza venne edificato da Costantino, e distrutto da un un incendio durante la rivolta di Nika nel 532; ricostruito, dal 537 al 1453 fu cattedrale ortodossa e sede del Patriarcato di Costantinopoli; da quell’anno divenne una moschea ottomana fino alla caduta del regime; dopo anni di sostanziale abbandono venne dichiarata da Atatürk museo nel quale ogni cittadino poteva ritrovare i simboli della sua fede ed ogni straniero incantarsi nel riconoscere l’incontro tra Oriente ed Occidente smarrendosi tra le decorazioni bizantine, i preziosi mosaici, le cupole e le possenti colonne. Un complesso artistico ed architettonico che spinse Giustiniano, una volta completati i lavori di restauro, ad esclamare: “Salomone ti ho superato!”, riferendosi all’antico tempio di Gerusalemme costruito dal grande re.Per mille anni Santa Sofia fu la più imponente cattedrale del mondo euro-mediterraneo, cioè dell’Occidente. Per Erdogan non significa niente. Soltanto un manufatto propagandistico. Erdogan, dai tristi giorni delle manifestazioni contro il regime a Gezi Park e a piazza Taksim tra il 28 maggio ed il 30 agosto del 2013, represse violentemente, fino al fallito (e farlocco) colpo di Stato, inventato sempre per distruggere i suoi nemici, ha mostrato ogni giorno di più la sua vera identità.
IL VERO VOLTO DEL SULTANO
La maschera è caduta e a nulla è servito il continuo richiamo alla responsabilità del suo acerrimo nemico Fethullah Gulen nel golpe del 15 luglio 2016 per giustificare l’altra violenta e terribile repressione che l’ha giustificata. Facile che in un contesto siffatto, abbiano prosperato jihadisti che hanno maturato la convinzione che fosse arrivato il momento per forzare la mano ad Erdogan stesso e si siano esibiti nel loro repertorio criminale come accadde nel Capodanno del 2017, sul Bosforo nel night club “Reina”.
È probabile che gli abbiano voluto far sapere che loro, frutti marci della predicazione islamista in salsa turca, non avrebbero gradito ancora per molto il disimpegno di Erdogan a fianco del Califfo (che c’è stato sia pure in maniera surrettizia) e non avrebbero mai accettato che la Turchia condividesse a lungo le posizioni di Mosca e di Teheran agevolando la realizzazione di un piano di pace in Siria che sarebbe stato dannosissimo all’espansione di Daesh nell’area.
Chi lo avrebbe detto, all’alba della conquista del potere del giovane ed intraprendente musulmano, che con la sua intelligenza politica si era fatto accettare anche da chi musulmano non era? Gli europei a quel tempo erano disposti a firmargli tutte le cambiali che esibiva. Non aveva ancora rivelato il suo vero volto e lo si apprezzava anche per come discretamente presentava sua moglie velata nelle occasioni pubbliche.
UN RICORDO PERSONALE
Mancavano pochi giorni a Natale nel 2004. Eravamo ad Ankara che appariva come una sola luminaria. Le lucine addobbavano tutti gli alberi della città. Uno spettacolo di rara bellezza che conferiva una certa grazia ad una città che proprio piacevole non è. Ci domandavamo come mai. Un turco amico, un islamico colto e gentile, ci disse che ovunque il Natale era la festa di tutti anche di chi non credeva. E ci offrì una birra. Mai avremmo imaginato di leggere un giorno cartelli ispirati all’odio religioso, al fanatismo più criminale: “Müslüman Noel Kutlamaz”, un musulmano non festeggia il Natale. Il frutto avvelenato è alla fine caduto dalla tavola imbandita da Erdogan. E Gennaro Sangiuliano lo documenta in maniera precisa, senza trincerarsi dietro il politically correct, ma tracciando del Sultano un profilo difficilmente confutabile. Quello di un tiranno in doppiopetto.







