L’allerta israeliana sui movimenti dei missili balistici iraniani riflette una soglia di rischio drasticamente ridotta dopo il 7 ottobre e il timore di una guerra innescata da una miscalculation. Sullo sfondo, la ricostruzione delle capacità iraniane passa sempre più da canali esterni, con la Cina come snodo chiave delle filiere dual-use e il mare tornato spazio centrale di interdizione e competizione strategica
Un’esercitazione missilistica avviata dall’Islamic Revolutionary Guard Corps potrebbe non essere solo ciò che sembra. I movimenti osservati riguardano vettori e lanciatori balistici, e secondo fonti israeliane e statunitensi l’ipotesi è che l’attività possa fungere da copertura per un attacco a sorpresa contro Israele.
L’allerta è scattata nel fine settimana, lungo un canale che negli ultimi mesi è diventato sempre più sensibile: la condivisione di informazioni tra Gerusalemme e Washington. Canale che sta seguendo sempre più un trend: da intelligence riservata diventa rapidamente notizia. Per primo Iran International — una rete all news londinese collegata a finanziamenti sauditi per creare una copertura critico del regime — e poi Axios (sito tra i più informati su queste e tante altre dinamiche) raccontano che tunzionari israeliani hanno mandato all’amministrazione di Donald Trump un avvertimento diretto su Teheran.
Formalmente, l’intelligence non indica un attacco imminente. Una fonte americana ha spiegato che al momento non ci sono segnali conclusivi in questa direzione. Ma il punto, per Israele, non è solo ciò che l’intelligence “vede”, quanto il margine di rischio che è disposto ad accettare — basso, per un paese che ha storicamente vissuto la propria sicurezza come un peso esistenziale, dimensione confermata dal macabro attacco del 7 Ottobre 2023.
Due anni dopo, la soglia di tolleranza si è logicamente abbassata in modo drastico — a maggior ragione dopo che ci sono stati attacchi reciproci che hanno coinvolto Teheran e Tel Aviv. Come ha ammesso una fonte israeliana, le probabilità di un attacco iraniano restano inferiori al 50%, ma “nessuno è disposto a correre il rischio e liquidare tutto come una semplice esercitazione”.
I precedenti pesano. Già sei settimane fa, movimenti simili erano stati interpretati come potenzialmente minacciosi, salvo poi rientrare senza conseguenze. Ma il contesto è cambiato. Sabato il capo di stato maggiore israeliano, Eyal Zamir, ha parlato direttamente con il comandante di U.S. Central Command, l’ammiraglio Brad Cooper, sottolineando che i movimenti iraniani potrebbero essere parte di una preparazione operativa mascherata. Il messaggio è stato chiaro: rafforzare il coordinamento difensivo per evitare sorprese.
Dietro le quinte, il rischio che più preoccupa è quello di una “miscalculation”: una guerra potrebbe scoppiare non perché una delle parti abbia deciso di colpire, ma perché entrambe temono che l’altra stia per farlo e cercano di anticiparsi. È una dinamica particolarmente instabile quando si parla di missili balistici, dove i tempi decisionali sono compressi e il margine di errore ridotto.
A rafforzare la preoccupazione israeliana contribuisce anche la traiettoria della ricostruzione iraniana dopo il conflitto di dodici giorni di giugno. Secondo fonti di intelligence israeliane, Teheran sarebbe scesa da circa 3.000 a 1.500 missili disponibili e avrebbe perso metà dei lanciatori dopo la Guerra dei 12 Giorni. Ma la ricostruzione è in corso, con una motivazione che appare più forte rispetto al periodo immediatamente successivo al breve scontro diretto con Israele (e Usa). Lato positivo: gli israeliani fanno sapere che il ritmo con cui la Repubblica islamica sta cercando di rimettere in piedi l’arsenale balistico – che per altro è sotto sanzioni Onu – è tale da non imporre un’azione militare urgente nel giro di settimane. È però un dossier destinato a diventare più pressante nel corso dell’anno prossimo, e non a caso il primo ministro Benjamin Netanyahu intende discuterne direttamente con Trump nel loro incontro di fine dicembre.
È qui che la cronaca si salda con un livello analitico più ampio. Perché la ricostruzione delle capacità missilistiche iraniane non dipende solo da ciò che accade all’interno dell’Iran. Dipende sempre di più da ciò che arriva dall’esterno. E in questo quadro, la Cina emerge come un fattore di contesto tutt’altro che secondario.
Pechino non fornisce missili completi, né appare come regista diretto del programma balistico iraniano, ma svolge un ruolo rilevante come fornitore di tecnologie e componenti dual-use, cioè civili nella forma e potenzialmente decisivi sul piano militare. Questo avviene per altro in un contesto economico bilaterale che sembra sempre più solido: nei primi otto mesi dell’anno iraniano in corso, il commercio non-oil tra Iran e Cina ha superato i 20 miliardi di dollari, confermando Pechino come primo partner commerciale di Teheran. I canali economici funzionano, e con essi circolano macchinari, tecnologie, know-how.
È tra questi traffici che si muove la dimensione più sensibile sul piano della sicurezza. Rapporti di intelligence occidentali indicavano mesi che navi iraniane avrebbero caricato in Cina perclorato di sodio, un precursore chiave per il propellente solido dei missili balistici. Quantità sufficienti, potenzialmente, a sostenere la produzione di centinaia di vettori a medio raggio. Non siamo nel settore dei missili balistici, ma…
Il segnale più concreto è arrivato la settimana scorsa. Un’unità di forze speciali statunitensi ha abbordato, nell’Oceano Indiano, una nave di origine cinese diretta verso l’Iran, sequestrando un carico descritto come “military-related” – che è posi stato distrutto. Formalmente, l’operazione era contro Teheran. Analiticamente, il messaggio andava anche a Pechino. È un caso raro: un’interdizione fisica in mare, mirata e politicamente densa, perché tocca una filiera in cui la Cina compare come origine di componenti sensibili.
Il punto non è la dimensione del singolo carico, ma il precedente che crea. Washington segnala di essere pronta a intervenire non solo sulla domanda iraniana, ma anche sull’offerta di tecnologie che alimentano il programma missilistico di Teheran. Il mare torna così a essere uno spazio di interdizione attiva, non solo di deterrenza. E l’Indo-Mediterraneo diventa il teatro in cui si intrecciano dossier iraniani e competizione strategica con la Cina.
Letta in questa chiave, l’allerta israeliana sui missili iraniani non è un episodio isolato. È il primo anello di una catena che lega esercitazioni, ricostruzione industriale, commercio dual-use e segnali marittimi. Una catena in cui la Cina non è protagonista dichiarata, ma è presente sullo sfondo. E in geopolitica, spesso, è proprio lì che si decidono le partite più delicate.
















