Le riserve ufficiali che il governo vorrebbe portare sotto il cappello dello Stato sono una sorta di assicurazione. Servono per essere utilizzate in caso di crisi e per sostenere il valore della moneta o come strumento della politica monetaria. Il commento di Gianfranco Polillo
L’emendamento alla legge di bilancio da parte di Lucio Malan sulle riserve in oro della Banca d’Italia sta facendo discutere. Sebbene la sua formulazione fosse stata più che neutrale (“le riserve auree gestite e detenute dalla Banca d’Italia appartengono allo Stato, in nome del popolo italiano”), l’ira dei benpensanti è stata immediata. Vogliono saccheggiare le riserve del Paese per scriteriate politiche di spesa: “per abbassare le tasse, o per costruire il ponte sullo Stretto, oppure misure specifiche contro la povertà” (copyright del Post). Che tutto ciò risponda ad un semplice processo alle intenzioni, di cui per altro non esiste traccia, è fin troppo evidente.
Ed allora conviene tornare con i piedi per terra, nella speranza di contribuire a far chiarezza su un tema indubbiamente specialistico, ma denso di implicazioni politiche. Partiamo, dai dati: in poco più di dieci anni (data di partenza il 2014) le riserve ufficiali italiane sono passate da 117 miliardi di euro a 333 (settembre 2025). Con una crescita del 185%. Nello stesso periodo il Pil italiano (tra un attimo vedremo la relazione) è aumentato del 34% in termini nominali.
A far crescere le riserve hanno contribuito due cause diverse: da un lato la somma degli attivi delle partite correnti della bilancia dei pagamenti (per circa 40 miliardi di euro, nello scorso decennio), mentre la restante parte maggioritaria (oltre 123 miliardi) derivava dagli “aggiustamenti di valutazione”. Vale a dire dalla variazione dei prezzi delle diverse componenti le riserve: oro, valute estere, crediti nei confronti del Fondo monetario, Diritti speciali di prelievo. In tutto questo, l’andamento verso l’alto del prezzo dell’oro l’ha fatta da padrone. Nel dicembre del 2014, l’oro pesava per il 66,5%. Lo scorso settembre questa percentuale era arrivata al 76,9%.
Un bene o un male? Prima di rispondere un po’ di comparato. La Banca d’Italia è il quarto detentore di riserve auree al mondo, dopo la Federal Reserve statunitense, la Bundesbank tedesca e il Fondo Monetario Internazionale. Interessante il confronto con la Germania. Se il valore delle riserve è rapportato al Pil, l’Italia sale sul podio più alto. Tutto bene allora? Per rispondere bisogna entrare nel merito. Le riserve ufficiali sono una sorta di assicurazione. Servono per essere utilizzate in caso di crisi per sostenere il valore della moneta (in questo caso l’euro) o come strumento della politica monetaria. Ogni assicurazione che si rispetti è sottoscritta a fronte di un rischio.
Se questo è contenuto da una politica finanziaria più che prudente, come nel caso dell’Italia, il costo implicito dell’assicurazione diventa esorbitate. È come pagare una cifra enorme per un’utilitaria che, all’anno, fa pochissimi chilometri. È quanto sta capitando all’Italia almeno dal 2014, che segnò il passaggio dalla crisi del 2011 agli inizi di un’espansione ciclica trainata prevalentemente dalle esportazioni e dalla compressione della domanda interna. Una politica che aveva consentito di azzerare il precedente deficit delle partite correnti della bilancia dei pagamenti (45 miliardi nel 2011), e la connessa situazione debitoria patrimoniale (-25,4% del Pil nel 2014) per trasformare entrambi quei parametri in un forte attivo: in media un 2% circa del Pil per le partite correnti. Una posizione creditoria nei confronti dell’estero che, nel quarto trimestre del 2014 aveva raggiunto il 15,3% del Pil. Con un salto, nell’arco di un decennio, pari a oltre 40 punti di Pil.
Il prezzo pagato per questi indubbi successi è stato, tuttavia, particolarmente elevato. Da quella data, infatti, l’Italia, quanto a ritmo di crescita, occupa stabilmente le ultime posizioni: sia all’interno del G7 che dell’Eurozona. E sarà peggio nei prossimi anni, stando almeno alle turbolenze che caratterizzano la situazione internazionale. Per fortuna la crescita dell’occupazione non ne ha risentito, ma i salari sono fermi da troppi anni. Il loro potere d’acquisto è stato più che limato dall’inflazione. Fare tutto il possibile per far crescere l’Italia ad un ritmo decente, almeno pari a quello degli altri Paesi concorrenti, diventa quindi un imperativo categorico. Ma per ottenere risultati conseguenti non basta invocare l’aiuto di Stato. A sostenere una simile politica, punteggiata da elargizioni tipo reddito di cittadinanza o bonus edilizi, sono rimasti solo i 5 stelle. La strada dello sviluppo non che può che essere diversa. Frutto di un impegno corale da parte di tutti coloro che sono chiamati a concorrervi. Occorre una politica tesa al rilancio della domanda interna su basi non inflazionistiche. Quindi centrata sulla ripresa degli investimenti, necessaria anche per colmare il possibile gap tecnologico, Mario Draghi docet, che si intravede all’orizzonte.
La ripresa salariale può, anzi deve muoversi sulla stessa lunghezza d’onda. No ad aumenti generalizzati, ma calibrati in relazione alla crescita di produttività che si è già manifestata, seppure a macchia di leopardo. Ma che, proprio per questo, le statistiche ufficiali non sono in grado di cogliere. Non si spiegherebbe altrimenti il forte avanzo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti, indubbiamente frutto dell’intraprendenza degli imprenditori italiani, ma supportati da una produttività in grado di imporre quelle produzioni sui mercati internazionali. Con questi temi deve misurarsi soprattutto il sindacato, rinunciando ad ipotesi di “rivolta sociale”, ma facendo il suo nobile mestiere. Contrattando dove si può e si deve contrattare. Ricercando le strategie più utili – quelle del decentramento – per raggiungere i necessari obiettivi.
Non meno impegnativo deve essere il ruolo dello Stato e quindi del governo. In Europa l’Italia deve avere la forza per adattare le regole del Patto di stabilità, alla reale situazione del Paese. Non ha senso una politica di austerity, comunque camuffata, quando esistono, tante risorse inutilizzate, di cui appunto il lievitare delle riserve ufficiali è un indizio imbarazzante. Quando gli investimenti esteri italiani sono un multiplo di quelli realizzati all’interno del Paese. Semplici investimenti di portafoglio. Tagliatori di cedole. Puri rentier, mentre le condizioni complessive della Nazione sono quelle che sono.
Enrico Letta e Mario Draghi, criticando giustamente le politiche messe in atto a livello europeo, si sono soffermati più volte sull’eccesso di risparmio messo a disposizione dell’estero. Quei 300 miliardi di euro, che ogni anno l’’Europa cede ai propri concorrenti, senza per altro ottenere alcun segno di riconoscenza. Basti pensare ai giudizi di Donald Trump ed alle sue politiche sui dazi, motivati da un vittimismo non del tutto giustificato. Ebbene l’Italia, nel suo piccolo, fa parte di questo club ristretto, insieme alla Germania, l’Olanda ed il Belgio. Dando origine ad un paradosso che sarebbe quanto mai opportuno superare.







