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Da Fini a Meloni, ecco la destra italiana ad Atreju

Dal palco di Atreju, 17 anni dopo, l’ex leader di An rappresenta la spia di un mondo meloniano che affronta il domani senza nostalgie ma con la consapevolezza delle proprie forze/deficit, degli errori del passato e soprattutto con la cocciutaggine di prendere una strada per convinzione, non per costrizione

La vecchiaia è bella. Peccato che duri poco, scrisse Gianni Brera. Il maestro del giornalismo sportivo italiano era solito inserire camei e indirizzi, tra le sue righe, al fine di stimolare riflessioni e provocare. Sembra passato un secolo e invece quelle righe servono: tornare al ‘900 per raccontare un partito (e un mondo) del ‘900.

Gianfranco Fini ad Atreju, dopo 17 anni, per la destra di oggi significa una primizia. Ovvero che, come accaduto in passato al centro e alla sinistra, il grande saggio è utile alle nuove generazioni per almeno due ragioni: da un lato avere memoria dei passi in avanti (Fiuggi) e degli errori commessi (scioglimento di An, a cui votò no l’attuale senatore di FdI Roberto Menia); e dall’altro usare quella memoria per andare incontro al futuro. Senza complessi o passatismo, ma pragmaticamente per avere consigli. A destra non era successo nella precedente esperienza dei governi Berlusconi. Oggi accade.

Riavvolgendo il nastro indietro fino al 1995, spiccano alcuni fatti. La casa delle libertà presentava uno schema preciso. Quella prima Forza Italia era densa di liberali, popolari e socialisti, come Antonio Martino, Fabrizio Cicchitto, Antonio Tajani, Cesare Previti e Giuliano Urbani.

Alleanza Nazionale era plasticamente “nella” svolta di Fiuggi, quindi con un portato preciso dato dalla svolta tatarelliana attuata dal segretario bolognese.

La Lega si basava sull’iper localismo bossiano, intriso delle teorie di Gianfranco Miglio, di stanza nelle regioni settentrionali. Delle tre punte chi raccolse voti e guida fu, come è noto, Silvio Berlusconi. La destra aennina si impose sfiorando il 14%. Il complessivo vento bipolare fece il resto, ma in quella fase politica la figura del saggio era rappresentata da chi era nato e vissuto prima di Fiuggi. Oggi accade il contrario.

La destra meloniana, plasmata grazie ad un saggio mix tra conservatorismo, identitarismo e pragmatismo, gode di una base elettorale ampia che cresce; si muove agilmente scrivendo un manifesto valoriale tarato sull’oggi e sul domani; crede che riforme strategiche come il premierato e la separazione delle carriere miglioreranno il sistema-Italia; approfondisce temi altamente complessi per poter affrontare le nuove sfide del futuro (e anche del presente) come l’IA, l’uso dei social, la lotta alle droghe, lo spazio, l’economia del mare, il rispetto delle tradizioni, ma senza balzi in avanti dettati dalla foga del consenso.

Bensì con la consapevolezza delle proprie forze/deficit, degli errori del passato e soprattutto con la cocciutaggine di prendere una strada per convinzione, non per costrizione. Non fosse altro perché nella coalizione è FdI il primo partito, non il secondo come nell’esperienza del primo centrodestra. La novità, per la destra, è anche questa. La responsabilità di assumere decisioni.

Nel suo primo discorso alle Camere il 24 ottobre di tre anni fa per chiedere la fiducia, Giorgia Meloni dispiegò così il suo manifesto politico: “L’Italia è a pieno titolo parte dell’Occidente e del suo sistema di alleanze, Stato fondatore dell’Unione europea, dell’Eurozona e dell’Alleanza atlantica, membro del G7 e, ancor prima di tutto questo, culla, insieme alla Grecia, della civiltà occidentale e del suo sistema di valori, fondato su libertà, uguaglianza e democrazia, frutti preziosi che scaturiscono dalle radici classiche e giudaico-cristiane dell’Europa”.

A proposito di Europa disse: “Come è stato possibile che un’integrazione che nasceva nel 1950, 70 anni orsono, come Comunità economica del carbone e dell’acciaio, a 70 anni di distanza si ritrovi, dopo aver allargato a dismisura le sue sfere di competenza, a essere maggiormente esposta proprio in tema di approvvigionamento energetico e di materie prime? Chi si pone questi interrogativi non è un nemico o un eretico, ma un pragmatico, che non teme di dire quando qualcosa non funziona come potrebbe”.

Ecco lo snodo: la naturalezza della destra meloniana di dire cosa non funziona. Il premier lo ha fatto in più di un’occasione europea, come sul dossier migranti (e oggi Bruxelles le ha dato ragione), Fini lo ha fatto ieri da Atreju ammettendo che la comunità di An non andava sciolta.

Voilà, c’est tout.


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