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IA e transizione verde. La corsa dell’Europa per restare in gioco secondo Zecchini

Nel 2026 l’Europa affronta una sfida cruciale: colmare il divario nell’innovazione, conciliare competitività e decarbonizzazione e ridurre le dipendenze strategiche. Solo una governance coesa potrà evitare il declino nella competizione globale. L’analisi di Salvatore Zecchini

La fine dell’anno segna anche quella del primo quarto di secolo. Un periodo di grandi sconvolgimenti di ogni natura ed origine a ritmi incalzanti. Prima l’attacco alle torri gemelle di New York, dopo pochi anni la crisi finanziaria globale, in seguito quella dei debiti sovrani e in rapida successione la diffusione pandemica di un virus sconosciuto, seguita dalla recessione economica e successivamente da un notevole rimbalzo della crescita insieme ai prezzi dell’energia e all’inflazione, l’inattesa aggressione della Russia alle porte dell’Ue, l’accelerazione della digitalizzazione, e da ultimo l’inquietante presidenza Trump e il rapido diffondersi dell’applicazione dell’Intelligenza Artificiale. Sono eventi dalle grandi ripercussioni che hanno innescato e attualmente alimentano radicali cambiamenti in ogni aspetto dell’economia e della vita di un Paese evoluto, quale è l’Italia. Di conseguenza, forzano a rivedere profondamente l’impostazione delle politiche seguite in anni recenti e impongono dolorose riforme strutturali.

Di fronte alle incertezze che ne sono seguite, è un grande risultato che finora le economie avanzate abbiano mostrato flessibilità, capacità di adattamento e resilienza, e che i governi siano riusciti a mitigare i rischi di gravi tensioni sociali. La crescita tra alti e bassi è proseguita, seppure a tassi moderati, e si è accompagnata a una buona espansione dei commerci internazionali. Non si è perduto il controllo sull’inflazione e l’occupazione non ha sofferto pesantemente, mentre i tassi di disoccupazione sono stati contenuti. In contrasto, i conti pubblici hanno accusato disavanzi crescenti, particolarmente di parte corrente.

Il primo quarto di secolo lascia in eredità non pochi squilibri e tensioni che fanno intravedere per i prossimi anni un cammino difficile nell’intento di mantenere continuità nello sviluppo economico-sociale. Tra i lasciti più ostici vanno annoverati il protezionismo commerciale, la concorrenza sleale di partner quali la Cina e gli Usa, la perdita di competitività europea dovuta anche al forte deprezzamento del dollaro, la necessità di investire massicciamente nella sicurezza nazionale di fronte alle esitazioni americane nel tener fede all’alleanza atlantica, la fine del sostegno dei finanziamenti del Pnrr in contemporanea con l’attuazione di programmi di risanamento della finanza pubblica e i ritardi nel contrastare le emissioni climalteranti. Sullo sfondo il ribaltamento dell’ordine internazionale emerso dalla caduta del regime sovietico per il ritorno dell’aggressività russa in Europa, la rivalità tra Usa e Cina, l’affacciarsi dell’India tra le grandi potenze e la carenza di coesione all’interno dell’Ue, che ne pregiudica il ruolo sulla scena internazionale.

Quanto gravi i condizionamenti da questa eredità? La tendenza dominante negli scambi internazionali di beni e servizi è nel senso dell’indebolimento a seguito delle accresciute barriere, sanzioni e sovvenzioni. Il Wto stima che il valore delle merci colpito dalle barriere sia più che quadruplicato nei dodici mesi terminanti nell’ottobre scorso, raggiungendo l’11% delle importazioni globali. Pertanto, la dinamica degli scambi di merci, dopo la discesa al +2,4% nell’anno corrente, si ridurrebbe a +0,5% nel prossimo. Altre fonti (Istat) prevedono una decelerazione meno intensa del commercio internazionale, dal 2,8% quest’anno al 2,1% nel 2026.

La decelerazione è scontata in ogni stima e ne soffrirebbe specialmente l’economia italiana, che ha già visto crollare il suo export verso gli Usa dopo le misure di Trump del secondo trimestre. Anche considerando l’insieme dei flussi commerciali, il contributo della domanda estera alla dinamica del Pil italiano nel 2026, secondo l’Istat, continuerebbe a essere negativo (-0,2 punti percentuali) pur in presenza di una ripresa delle esportazioni. Le imprese hanno in realtà mostrato di sapere indirizzarsi verso altri mercati, ma devono fronteggiare l’imprevedibilità di nuove barriere, sovvenzioni e altre forme di concorrenza sleale, specialmente dall’area asiatica e dalla stessa America.

L’accordo commerciale dell’Ue con l’amministrazione Trump mostra quanto sbilanciato sia il rapporto col più forte alleato. I prodotti americani hanno accesso libero sul comparativamente più grande mercato europeo, mentre quelli europei vedono repentinamente più che triplicare i dazi americani (al 15%), con picchi ancor più elevati per categorie importanti, come l’automotive e l’acciaio (tra 25% e 50%). La concorrenza americana al pari di quella asiatica è inoltre avvantaggiata tanto dal non sottostare alle stesse regole europee di tutela ambientale e di disciplina economica, quanto dal dominio americano nelle grandi piattaforme di e-trade. Si è quindi prodotta una sperequazione a danno delle produzioni europee, che non sembra aver sollecitato l’UE a prendere con urgenza misure correttive alla frontiera e all’interno.

Sul fronte del mercato dei cambi, invece, non si vede spazio per interventi volti a contenere l’apprezzamento dell’euro, in quanto si opera in regime di libero movimento dei capitali e di astensione da interventi diretti sul mercato. L’attuale orientamento accomodante della politica monetaria della Bce dovrebbe smorzare le pressioni al rialzo dell’euro, e il corso del dollaro potrebbe stabilizzarsi se la Fed non abbandonasse la lotta all’inflazione abbassando i tassi d’interesse oltremisura per contrastare l’indebolimento della congiuntura americana. Oltre che con misure dirette a ristabilire parità di condizioni sul Mercato Unico tra prodotti esteri ed interni, la competitività europea va sostenuta con interventi strutturali su più campi per aiutare le imprese a navigare nella grande rivoluzione “industriale” innescata dalla digitalizzazione e dall’IA.

Le maggiori sfide sono essenzialmente tecnologiche e d’innovazione, di regolamentazioni pervasive, redditività degli investimenti, riconversione del capitale umano, invecchiamento della popolazione e ricambio generazionale tra le Pmi. Ispirandosi alle indicazioni dei due Rapporti sul mercato unico e la competitività la Commissione Ue ha proposto ad inizio d’anno una serie di cambiamenti e interventi sui dossier più sfidanti. Il programma ruota attorno a tre obiettivi, eliminare il distacco nel campo dell’innovazione, conciliare competitività e decarbonizzazione, e ridurre le dipendenze eccessive da paesi esteri che possono compromettere la sicurezza nazionale. A questi obiettivi si affiancano cinque fattori abilitanti che vanno dalla semplificazione all’Unione dei risparmi ed investimenti, e il coordinamento transnazionale delle politiche dei Paesi membri.

Di questo ambizioso programma in un anno è stato realizzato meno del 10%, risultato che lascia prevedere per il futuro un lento processo di rinnovamento e un persistente ritardo rispetto ai Paesi leader dello sviluppo anche nell’Ue. Se è dubbio che da queste azioni possa provenire la spinta alla crescita nell’immediato futuro, è dall’attuazione del Pnrr e soprattutto dagli investimenti fissi realizzati che si attendono impulsi in grado di ravviare l’economia europea e in particolare quella italiana. Peraltro, non si prevede che questi impulsi siano talmente forti da compensare altri fattori nell’evitare un rallentamento della crescita nell’eurozona dal +1,4% del 2025 al +1,2% nel 2026. La produttività per addetto, tuttavia, dovrebbe riprendere ad accelerare dopo il rallentamento nell’anno corrente.

Il quadro economico italiano si distanzia da quello dell’Ue per la dinamica del Pil più lenta, benché sia in lieve accelerazione dallo 0,5% nel 2025 allo 0,8% nel 2006. La crescita è dovuta soltanto al cauto incremento della domanda interna sia per consumi che per investimenti, mancando un apporto positivo di quella estera al netto delle importazioni. La spesa per consumi dovrebbe espandersi leggermente come riflesso del recupero del potere di acquisto dei redditi da lavoro, dell’occupazione in aumento e di un atteso attenuarsi della propensione al risparmio. Gli investimenti dovrebbero, invece, beneficiare del completamento delle opere infrastrutturali previste nel Pnrr anche oltre la scadenza del 2026 e dalla ripresa della spesa per macchinari ed attrezzature, incentivata dagli aiuti pubblici.

Le possibilità di una maggiore accelerazione della crescita, tra l’altro, sono limitate dal vincolo posto sulla traiettoria della spesa pubblica per ridurre il deficit di bilancio, vincolo soprattutto per la parte primaria corrente, piuttosto che per quella relativa agli investimenti. Col contenimento del disavanzo pubblico e una graduale accelerazione del Pil si tende a piegare verso il basso dal 2027 la dinamica del debito pubblico in rapporto al Pil. Ma in realtà questa aspettativa si scontra con la necessità di espandere la quota di spesa pubblica in armamenti e forze armate per dare consistenza alla capacità del Paese di difendersi da minacce esterne. Anche se questo indebitamento non rientrasse nel calcolo del vincolo del Patto di Stabilità, sarebbe un aggravio del fardello del debito pubblico di cui i mercati finanziari terrebbero conto nel determinare le condizioni di finanziamento. Sembra quindi probabile che nei prossimi anni si comprima la quota delle altre spese per fare spazio a quella per la sicurezza.

La chiave di volta per irrobustire la crescita italiana, e anche europea, rimane, quindi, nel creare un ambiente più favorevole agli investimenti e alle attività delle imprese, intervenendo anche sulle restrizioni per la decarbonizzazione e gli eccessi di regolamentazione. È di tutta evidenza che l’ambizioso programma europeo di abbattimento delle emissioni inquinanti non ha impedito un pericoloso innalzamento dei livelli di CO2 e gas nocivi nella atmosfera del globo. Questo non giustifica l’abbandono del programma, ma impone di proteggere efficacemente le produzioni interne da concorrenti sleali e impegnarsi perché altri paesi partecipino al contrasto al cambiamento climatico.

Sulle prospettive economiche in Europa gravano sullo sfondo le incognite del conflitto con la Russia e delle disequilibranti politiche del presidente americano. Dal primo possono originare nuovi sconvolgimenti dei mercati energetici, altre sanzioni commerciali e finanziarie, e altre spese per la sicurezza. Dal secondo, bisogna attendersi sviluppi delle politiche che si riflettono sull’evoluzione dell’economia mondiale e di quella europea in particolare.

Alla fine di questo anno, tuttavia, i governanti europei dovrebbero essere meglio preparati a fronteggiare eventualità sconvolgenti e avrebbero ormai appreso che soltanto serrando i ranghi tra i paesi dell’Ue per un’azione veramente coesa si possono affrontare i pericoli esterni e interni all’area. La governance europea necessita, pertanto, di riforme nel senso di una più solida convergenza d’intenti e di azioni.

Per l’Italia il nuovo anno si presenta altrettanto difficile quanto quello trascorso per il duplice confronto con margini di manovra molto ridotti in diverse politiche, non solo economiche, e per le esigenze tradizionali di un anno pre-elettorale. Il consolidamento della ripresa economica e la stabilizzazione dei conti pubblici non passeranno in secondo ordine, ma si faranno più pressanti nel nuovo quadro internazionale per non accumulare altri ritardi di sviluppo. Il successo potrà scaturire soltanto dal mantenere la barra delle politiche dritta verso questi due obiettivi.


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