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La Cina nel Mediterraneo, uno scenario possibile raccontato dall’amm. Caffio

Contenere l’espansionismo cinese nel Mar della Cina in violazione del diritto internazionale è un obiettivo degli Stati Uniti e del G7. Dopo aver avanzato pretese territorialistiche in vasti spazi marittimi al largo delle proprie isole, Pechino ora si mostra paladina della libertà dei mari in vari quadranti -Mediterraneo compreso – per proteggere i suoi traffici marittimi

Pechino non è mai stata una potenza marittima per ragioni storiche e geografiche. Lento è stato perciò il suo affacciarsi sul mare con la Marina da guerra (che nel 2027 celebrerà il suo centenario) in funzione di interdizione contro le Filippine e Taiwan, per poi passare ad operazioni di proiezione oltremare. La Marina cinese, pur non disponendo ancora della propulsione nucleare, ha raggiunto oramai le dimensioni di quella statunitense potendo vantare superportaerei e una articolata e nutrita disponibilità di caccia, fregate e sommergibili.

Conosciamo bene la questione del Mar della Cina Meridionale (Scs) in cui Pechino avanza pretese territorialistiche basate su formazioni insulari emergenti a bassa marea che un Tribunale arbitrale ha giudicato illegittime nel 2016. Ogni giorno le cronache riportano episodi di contrapposizione con le Forze marittime filippine operanti nella loro Zee e con Unità occidentali e giapponesi che esercitano libertà di navigazione.

Gli Stati Uniti sono gli alfieri di queste attività di contestazione diplomatica condotte nell’ambito del Freedom of Navigation Programm (Fon). Dopo essersi limitata a contrastarle caso per caso, ora la Cina ha invertito il suo approccio passando anch’essa ad adottare concetti liberistici basati sulla Convenzione del Diritto del mare (Unclos) di cui è parte.

La posizione cinese è quindi duplice: da un lato difendere i suoi interessi nei “mari di casa”; dall’altro proiettare la sua politica di potenza negli Oceani e nei mari altrui.

Proprio per questo Pechino si è alleata con Mosca nello svolgere attività navali all’estero. Si pensi alle manovre nella Zee statunitense dell’Alaska o all’uso progressivo della rotta polare lungo le coste russe.

L’applicazione dell’Unclos ha dato alla Cina la possibilità di avvicinarsi al Mediterraneo sin da quando nel 2009 ha inviato Unità navali nel Golfo di Aden in missione antipirateria. In quel contesto si sono sviluppate nel 2012

forme embrionali di collaborazione operativa con la Marina italiana cui hanno fatto da contorno visite di navi da guerra cinesi nelle nostre basi navali di Spezia e Taranto

Come si ricorderà, Pechino è stata a lungo corteggiata dal nostro Paese come partner commerciale privilegiato. Il memorandum del 2019 sulla via della Seta (Bri) non è stato tuttavia rinnovato nel 2023 per il persistente squilibrio nell’import-export e per nostra fedeltà alle politiche transatlantiche ostili alla Cina. Sono così tramontati i progetti di fare dei porti italiani un hub primario per i traffici cinesi in Mediterraneo.

Nel frattempo Pechino ha consolidato la sua posizione nel porto del Pireo dove ha acquisito grandi spazi approfittando della crisi finanziaria greca di qualche anno fa.

Ma soprattutto, dopo l’abbandono italiano della Bri, ha puntato su Madrid come “cavallo di Troia” della sua espansione nel mercato Ue, per scaricare sull’Europa il surplus produttivo che gli Stati Uniti non assorbono più con la politica trumpiana dei dazi.

La Spagna del premier Sanchez ha in effetti giocato abilmente le sue carte accreditandosi con la Cina come partner affidabile e riuscendo addirittura a guadagnare spazi in favore dell’industria spagnola sia per investimenti cinesi, sia per export di propri prodotti. Ci sarebbe da chiedersi perché Madrid non si sia posta gli stessi scrupoli che a noi hanno impedito di aderire alla Bri, ma questo  riguarda forse l’eccessiva rigidità della nostra politica estera che spesso sceglie di appiattirsi su posizioni multilaterali.

A questo punto ci sarebbero tutte le premesse perché la Marina cinese incrementi la sua presenza in Mediterraneo non solo nei porti del Nord Africa in cui è di casa, ma anche in Spagna, Grecia e forse Turchia.

Tra l’altro, strettissimi sono i rapporti tra Egitto e Cina per via del Canale di Suez di cui Pechino è uno dei principali utilizzatori: navi cinesi, dopo la sosta ad Alessandria, hanno condotto di recente esercitazioni con le Fremm egiziane; mentre i mercantili cinesi in transito dal Mar Rosso hanno goduto di una sorta di salvacondotto da parte degli Houthi che non le hanno attaccate, facendo risaltare il pragmatico profilo filopalestinese di Pechino nei confronti della crisi di Gaza.

È difficile pensare a questo punto che l’Italia riguadagni posizioni nei rapporti bilaterali con Pechino avendo oramai perso la partita della Bri, pur mantenendo le tradizionali relazioni amichevoli evidenziate da recenti visite ufficiali del Presidente Mattarella e della premier Meloni.

Dovremmo quindi concentrarci sull’obiettivo di riequilibrare e contenere il disavanzo commerciale, magari con l’aiuto di esportatori cinesi che operano in Italia e con l’applicazione delle nostre rigide normative sulla tutela dei marchi e della salute, ben attenti a che i prodotti cinesi non ci arrivino via Spagna.

Senza escludere di prepararci ad una nuova “guerra fredda navale” non solo con il tradizionale antagonista russo ma anche con una Cina che sul mare – incluso l’underwater – non esita ad utilizzare tattiche ibride.

Pechino è infatti  un attore navale che sfrutta tutte le opportunità offerte dall’Unclos per il transito in Zee ed acque territoriali straniere avvalendosi della sua flotta commerciale che svolge azione di supporto, anche in termini di intelligence, ai superiori interessi della propria Marina da guerra. Non a caso, questo è stato un motivo per non consentire ad operatori marittimi cinesi di installarsi a Taranto, vicino alla base navale Nato.


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