Skip to main content

La vendetta veste da sposa. Il film “Un semplice incidente” visto da Ciccotti

L’iraniano “Un semplice incidente” (2025, di Jafar Panahi), Palma d’Oro a Cannes, girato contro il parere del regime, è un coraggioso atto di denuncia contro le torture che sa rinunciare al “concetto di occhio per occhio dente per dente”. In un intrigante stile iper-realista, tra Buñuel e Kusturica

Sotto Natale può capitare di imbattersi in più di un film che parli del desiderio di vendicarsi per un torto subito, lo abbiamo visto con The Teacher. Ora il tema torna in Un semplice incidente (Yak taṣādof-e sāde, 2025) di Jafar Panahi, Palma d’Oro al 78° Festival del cinema di Cannes, che resiste in programmazione da alcune settimane: un piccolo miracolo, come capita ai bei film indipendenti.

Per ricordarci dell’esistenza di un pubblico interessato ad un cinema di riflessione, di “pensiero”, a storie dai valori etici ben argomentati, che non si accontentano di alcune battute sul “volemose  bene” spruzzate tra i dialoghi.

Quello che racconta Jafari potrebbe capitarti. Sei stato in prigione e hai subito, per mesi, delle angherie, addirittura delle torture, solo per aver espresso il tuo pensiero democratico, giudicato “antigovernativo”. Ti capita, per caso, ora che sei in libertà – e fai il meccanico e ti chiami Vahid – , di incontrare il tuo torturatore. È notte. Piove. Si è fermato con la sua auto in panne nei pressi della tua officina, in cerca di soccorso, mentre rientrava in casa, con la moglie incinta e una bambina di sette anni. Lo riconosci dal suo passo claudicante – l’unica traccia: in prigione, durante le percosse, venivi bendato -: quel colpo sordo, a tempo, sul pavimento, ti è rimasto inchiodato nella mente. È il caso? È la “giusta” vendetta che viene dal cielo e bussa alla porta del tuo cuore marchiato da mesi di reclusione; è l’inattesa soddisfazione per il tuo orgoglio umiliato? Non ti fai sfuggire l’occasione. Lo colpisci con una badilata a tradimento, lo bendi, lo leghi.

Il giorno dopo, in pieno sole, eccoti in un pezzo di deserto, dove hai scavato una profonda fossa. Intendi seppellirlo vivo. Per quella che tu ritieni una legittima azione da pareggiare il dolore subito in prigione da te e dai tuoi compagni dissidenti. L’uomo bendato e legato, dal fondo della fossa, con la terra che gli arriva a palate sulla faccia, ti grida che stai sbagliando persona. Replichi che tutti i detenuti politici conoscono “gamba di legno”, quello che per anni li condannava al supplizio. Il sequestrato implora: “Guarda la mia amputazione, è fresca, da poco porto la protesi. Non sono io!”.

In effetti l’amputazione appare recente. Vahid s’intuba nel dubbio. Rimette il sequestrato, legato e sempre bendato, nella cassa, la ricarica sul suo furgone. Va a chiedere un parere a un suo amico, commesso in una libreria, ex compagno di prigione. Vuole che lo venga a vedere per avere una conferma. Ma l’amico gli ricorda essere improbabile, da ex-prigioniero bendato, riconoscere qualcuno. E poi, non vuole più avere a che fare con il passato. Ora si occupa di libri. Declina l’invito. Ma dà a Vahid il numero telefonico di una ragazza: forse lei può aiutarlo nel riconoscimento.

Questa, una fotografa, è nel mezzo del suo artistico servizio per un matrimonio: la sposa dentro un vaporoso, gonfio, vestito in bianco con corto strascico, l’uomo in abito blu-notte. Dopo capiremo che tutti si conoscono da tempo. Appena la fotografa sa da Vahid che “gamba di legno” è nella cassa, nel furgone, si altera, sospende il servizio, vuole vederlo. Può solo dire che la voce sembra sia quella del carceriere. La sposina, a sua volta, saputo dell’ospite del furgone, si infila a razzo nell’abitacolo con tutto il suo vestito svolazzate “per strozzarlo con le mie mani”. Ha i suoi motivi: fu stuprata da “gamba di legno”. Ma quello che può dire sul riconoscimento è che emana “lo stesso odore di sudore”.

Inizia il viaggio del furgone. Con all’interno il gruppo di amici, cui si è aggiunto un quinto ex detenuto: di nuovo verso il deserto, per dare esito alla sepoltura-vendetta. Giunti sul posto, dalla cassa squilla un cellulare. Dopo l’esitazione di tutti, Vahid risponde. È la voce piangente di una bambina: cerca il proprio padre. Dice che la mamma è sul pavimento, svenuta. Il “commando” decide di andare ad aiutare la bambina. La madre, incinta, priva di sensi, ha perso le acque. La portano in ospedale. Siccome nessuno ha (o non vuole mostrare) i documenti la reception non intende accettarla… poi un medico la fa ricoverare sotto “la mia responsabilità”. Nasce un bel bambino. I cinque vendicatori, facendo una colletta, comprano i cioccolatini per la piccola, lasciando una mancia alle infermiere. Qui l’assurdo si fa black comedy.

Ripartono, debbono chiudere con il sequestrato. Ma alla fine, nessuno è più tanto sicuro che il povero tizio sia il loro “gamba di legno” torturatore. Il sequestrato viene lasciato con il solo Vahid, colui che ha iniziato questa storia, sospesa tra realtà e assurdo quotidiano, tra Edgar Allan Poe e Tommaso Landolfi, in piena campagna. Vahid gli spiega come liberarsi, deponendo un coltello ai piedi di un albero, accanto all’uomo, ancora legato come un salame.

Ora è una giornata di sole, Vahid sta aiutando la mamma per un trasloco. Mentre sale le scale di casa, preso di spalle, sente (nella sua testa?) di nuovo il passo claudicante, che batte a tempo, angosciante. Lo stesso martellamento del giorno prima, in officina. Il finale, aperto, surreale, ci fa pensare alle chiuse di un Louis Buñuel.

Un semplice incidente ha l’andamento di un racconto filosofico sia sul piano gnoseologico che etico, con una coppia di antinomie pronte a interrogare lo spettatore mentre lascia la sala: apparenza/realtà; perdono/vendetta, passato/futuro. Con una marcata coda di etica pragmatica circa “la giustizia privata”: l’eventuale assassinio di quell’uomo porterebbe la bilancia in pari? Certo, loro sono stati torturarti, ma sono in vita. Ammesso che il sequestrato sia il loro “gamba di legno”, che senso avrebbe ucciderlo, togliergli la vita, privare i due figli di un padre? Per non parlare di una puerpera eventualmente vedova.

Dopo la via crucis dell’uomo nella cassa per la città, dopo averlo gettato e ripescato dalla fossa, dopo gli schiaffi inflittigli sul volto, dopo che la rabbia è sbollita, dopo aver soccorso la donna incinta e svenuta, dopo aver passato la notte in ospedale con la loro figlioletta, qualcosa è cambiato nel cuore di componenti del “commando”. Hanno assaporato la bellezza di una vita che viene al mondo e, al contempo, l’acre odore della vendetta, lontana dal generare soddisfazione.

Nel raccontare una storia di sofferenza (Panahi parte dalla sua esperienza di recluso, per motivi ideologici, tra il 2023-24) la scelta registica è, inizialmente, quella realistica. Ma di un realismo in graduale viraggio verso l’allucinato, l’iperreale, l’assurdo ironico. Nei nostri occhi rimane una donna vestita di bianco che, interrotte le romantiche pose da novella sposa, si infila piena di rabbia, correndo, e tenendo alzato da terra il fluttuante barocco vestito bianco, in un furgone per vendicarsi; o il salvataggio di una donna incinta, svenuta, trasportata in ospedale, stesa sulla cassa nella quale c’è suo marito: un sur-realismo visionario dal retrogusto slavo, alla Dusan Makavejev o alla Emir Kusturica.

 


×

Iscriviti alla newsletter