Il governo di Tripoli cerca di accreditarsi come polo legittimo, stabile e capace della Libia, in contrapposizione al fronte di Bengasi legato a Khalifa Haftar. Tutti gli aggiornamenti
Il Governo di unità nazionale libico (Gun) sta usando ogni arma in suo possesso, dal dialogo politico alla proiezione culturale fino alla forza securitaria, per presentarsi alla Comunità internazionale come il polo legittimo e capace della Libia, in contrapposizione al blocco di Bengasi legato a Khalifa Haftar che seppur lentamente avanza di giorno in giorno.
La cerimonia tenutasi il 3 dicembre a Zawiya, alla quale hanno partecipato il ministro dell’Interno dell’esecutivo di Bengasi, Essam Abu Zreibah, e il ministro dei Trasporti, Abdulhakim Al-Ghazwi, per l’inaugurazione del progetto dell’aeroporto commerciale locale, meritava una risposta. Secondo alcuni questo evento ha rappresentato un ingresso politico o militare del governo dell’est nella Libia occidentale, mentre per altri solo un atto dimostrativo in quanto il ministro Abu Zreibah appartiene a una delle principali tribù di Zawiya.
Resta il fatto che l’avvio del Dialogo Libico Strutturato, la riapertura in grande stile del Museo Nazionale e l’uccisione del trafficante di esseri umani Ahmed al‑Dabashi “al‑Ammo” compongono un’unica narrazione: Tripoli come centro di un progetto di Stato, non soltanto di un equilibrio di milizie.
Il Dialogo Strutturato come piattaforma politica
Le sessioni del Dialogo Libico Strutturato che si aprono oggi a Tripoli, sotto l’egida dell’Unsmil, sono uno dei tre pilastri della nuova roadmap politica presentata dalla rappresentante speciale Hanna Tetteh al Consiglio di Sicurezza il 21 agosto. Accanto all’adozione di un quadro elettorale tecnicamente solido e all’unificazione delle istituzioni, il Dialogo punta a costruire un consenso nazionale su regole di gioco condivise, affrontando non solo le scadenze elettorali ma anche le cause profonde del conflitto.
La composizione del forum – selezionata con criteri che privilegiano diversità geografica e sociale, parità di genere (almeno 35% di donne) e competenze in governance, economia, sicurezza e diritti umani – serve a rafforzarne la legittimità interna e a proiettare verso l’esterno l’immagine di un processo inclusivo, in linea con il mandato che il Consiglio di Sicurezza ha affidato alla missione Onu.
I quattro assi del confronto
Il Dialogo si articola attorno a quattro assi principali: governance e forma dello Stato, economia e gestione delle risorse, sicurezza, riconciliazione e diritti umani. Nella dimensione istituzionale, i partecipanti sono chiamati a misurarsi con questioni strutturali: regole di condotta di partiti e candidati, durata e poteri di un futuro governo unificato, opzioni tra modelli centralizzati, decentrati o federali e tra assetti presidenziali, parlamentari o misti.
Sul fronte economico, l’obiettivo è passare da una diagnosi cronica delle disfunzioni a una proposta di governance finanziaria più disciplinata: controllo della spesa pubblica, riforma del settore petrolifero, diversificazione oltre l’oil, riforma bancaria e transizione digitale, con l’ambizione di una distribuzione più equa della ricchezza e di una visione di sviluppo di lungo periodo.
Sicurezza, riconciliazione e Stato di diritto
L’asse sulla sicurezza collega direttamente il Dialogo alle dinamiche di potere sul terreno: protezione del processo elettorale, riforma del settore sicurezza, consolidamento del cessate il fuoco e costruzione di una struttura di sicurezza unificata, responsabile e sotto chiara guida civile. Non si tratta solo di “ordine pubblico”, ma di definire chi controlla la forza legittima in un Paese dove le milizie restano i veri arbitri locali.
Il capitolo su riconciliazione e diritti umani si concentra invece sulla creazione di uno spazio civico sicuro e sulla gestione dei nodi irrisolti: detenzioni arbitrarie, giustizia transizionale, indipendenza della magistratura. L’idea di fondo, coerente con gli obiettivi di UNSMIL, è che senza una cornice legale condivisa e credibile qualunque ciclo elettorale resti vulnerabile a ricatti armati e negoziazioni parallele.
Il museo come vetrina della “nuova Tripoli”
In questo quadro, la riapertura del Museo Nazionale nella “Red Castle” affacciata su Piazza dei Martiri assume un valore fortemente politico. Il complesso, rimasto a lungo chiuso per ragioni di sicurezza e di gestione, torna ad essere uno dei simboli della capitale, con una cerimonia scandita dalla presenza di ministri, parlamentari, rappresentanti del Consiglio di Stato e ambasciatori, tra cui l’italiano Gianluca Alberini.
La scelta di collegare l’evento a una rete di iniziative parallele nelle ambasciate libiche di capitali come Roma, Berlino, Parigi, Istanbul, Doha, Abu Dhabi, Tunisi, Il Cairo, Belgrado e La Valletta, con dirette streaming e momenti di celebrazione con le diaspore, trasforma la riapertura del museo in un atto di diplomazia culturale: Tripoli propone una Libia che torna sulla scena internazionale come custode di un patrimonio antico e non solo come teatro di crisi.
L’eliminazione di al‑Ammo e la campagna securitaria
A pochi giorni dalla festa della cultura, la Forza per la Lotta contro le Minacce alla Sicurezza ha annunciato la morte di Ahmed Omar al‑Dabashi, “al‑Ammo”, in un’operazione a Sabratha lanciata dopo un attacco contro un posto di blocco nei pressi dell’ospedale cittadino. L’azione, condotta in base a un mandato della Procura, ha portato all’uccisione di al‑Ammo, all’arresto di un suo familiare chiave e al ferimento grave di diversi membri della forza.
Al‑Dabashi era da anni uno dei nomi più noti nelle reti di tratta di esseri umani e traffici illeciti lungo la costa occidentale, inserito dal 2017 nelle liste sanzionatorie ONU e ricercato dalle autorità libiche per una lunga serie di crimini, dagli abusi contro migranti alla gestione di milizie armate. Per Tripoli, l’eliminazione di una figura così esposta è un tassello centrale nella narrativa di “ripristino dell’autorità statale”, proprio mentre si chiede alla comunità internazionale di credere nella roadmap ONU.
Gli analisti libici: strategia o rotazione di milizie?
L’analista libico Ahmed Zaher legge l’operazione di Sabratha come il proseguimento di una strategia di “neutralizzazione selettiva” iniziata con l’eliminazione di Abdel Ghani al‑Kikli, detto Gheniwa: non più semplice contenimento delle milizie, ma colpi mirati ai grandi capi che controllano territori e rotte sensibili. Secondo Zaher, l’area a ovest di Tripoli è oggi il cuore della campagna del governo, dopo una serie di accordi e riequilibri all’interno della capitale, con un duplice obiettivo: impedire a Haftar di rientrare indirettamente nello scacchiere occidentale e rafforzare il controllo sui porti e sulle rotte della migrazione irregolare, cruciali nei rapporti con l’Italia.
Zaher solleva in un colloquio con “Formiche” però un interrogativo di fondo: a chi giova davvero l’uscita di scena di al‑Ammo? L’esperienza libica dimostra che la morte di figure centrali non coincide automaticamente con lo smantellamento delle reti che le hanno prodotte; in assenza di istituzioni forti, l’eliminazione di un attore armato rischia di tradursi in una semplice “rotazione” di milizie, con nuovi capi che ereditano gli stessi snodi di potere e le stesse leve di ricatto.
Il paradosso delle milizie: eroi, apparati e “terroristi”
Il giornalista libico Issa Abdulqayum, commentando l’uccisione di al‑Ammo, mette in luce un paradosso ricorrente del ciclo post‑2011: molti comandanti che in passato sono stati presentati come rivoluzionari o responsabili di apparati “ufficiali” vengono poi eliminati in operazioni extragiudiziarie e retrospettivamente descritti solo come “terroristi” da cancellare. Dal suo punto di vista, al‑Ammo non sarà l’ultimo a seguire questo copione, che evidenzia l’assenza di un percorso giudiziario trasparente e la centralità della forza bruta nella gestione dei dossier di sicurezza.
Questa lettura contrasta, ma in parte completa, quella di Ahmed Hamza, presidente della Fondazione nazionale per i diritti umani, che definisce l’uccisione di al‑Ammo un “passo importante e positivo” verso lo smantellamento delle reti di criminalità organizzata e di tratta di migranti in Libia occidentale. Hamza ricorda il ruolo di primo piano del trafficante nelle reti sanzionate a livello internazionale e sottolinea come la sua eliminazione apra uno spazio potenziale per affrontare forme più gravi di tratta di esseri umani e di criminalità transfrontaliera.
Tripoli contro Bengasi: la battaglia delle immagini
Nel confronto con il governo insediato a est e con il generale Haftar, Tripoli gioca dunque su un doppio registro. Da un lato, si accredita come partner culturale e diplomatico dell’Europa, rilanciando il Museo Nazionale, mobilitando le ambasciate e coinvolgendo élite culturali e comunità della diaspora in una “regia” transnazionale che punta a riposizionare la Libia come Paese con una storia e una identità da valorizzare. Dall’altro, utilizza l’apparato di sicurezza per colpire nodi dell’economia criminale – come Sabratha, hub storico dei traffici verso le coste europee – cercando di dimostrare di poter rispondere alle priorità di Italia e UE sul fronte migratorio.
In filigrana, la competizione con Bengasi è anche una battaglia per il monopolio della narrazione: chi è il vero garante della sovranità, chi controlla le coste, chi può sedersi con maggiore credibilità ai tavoli internazionali – dalle conferenze sul Mediterraneo alle intese operative sulla migrazione.
Cultura, dialogo e forza: un equilibrio instabile
Mentre il Dialogo Strutturato prova a definire regole condivise, il museo restituisce alla Libia un simbolo di continuità storica e l’operazione contro al‑Ammo manda un segnale di fermezza sul terreno, il nodo centrale resta irrisolto: la mancanza di un quadro sovrano e legale che limiti la trasformazione di territori, porti e rotte migratorie in strumenti di negoziazione tra milizie e attori politici. In questo senso, le riflessioni degli analisti libici convergono su un punto: senza un vero processo di costruzione statuale, fondato su una base costituzionale condivisa e su istituzioni unificate, la Libia continuerà a oscillare tra eventi simbolici e operazioni di forza, più che avanzare verso una stabilità strutturale.
Tripoli ha scelto di parlare al mondo attraverso tre immagini coordinate – il tavolo politico inclusivo, il museo che riapre e il trafficante che cade – ma la loro capacità di produrre un cambiamento duraturo dipenderà da quanto il Dialogo Strutturato saprà trasformarsi in decisioni vincolanti e da quanto la logica selettiva della forza riuscirà a lasciare spazio a una vera giustizia, non solo a nuove rotazioni di potere.
















