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Difesa dei cristiani, stabilità in Africa. Perché Trump ha bombardato l’IS in Nigeria

Gli Stati Uniti colpiscono milizie jihadiste in Nigeria collegate allo Stato Islamico, mentre l’amministrazione Trump ha alzato la pressione su Abuja sul tema della sicurezza e della libertà religiosa. Tra narrativa religiosa, complessità locali e interessi strategici, la situazione nigeriana diventa un banco di prova anche per il coordinamento transatlantico, con l’Italia impegnata a tenere insieme principi e pragmatismo (anche nell’ottica del Piano Mattei)

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha annunciato nella sera di Natale di aver ordinato il lancio di raid aerei contro miliziani dello Stato Islamico (IS) nel nord-ovest della Nigeria, definendoli “potenti e letali”. L’operazione, condotta nello Stato di Sokoto, rappresenta il punto di caduta di settimane di pressioni politiche e retoriche della Casa Bianca su Abuja, accusata di non riuscire – o non voler riuscire – a fermare le violenze contro le comunità cristiane. La data scelta è più che simbolica.

Narrazioni e interessi

La narrazione adottata da Trump è politicamente chiara. Secondo il presidente, i raid avrebbero colpito miliziani “responsabili dell’uccisione sistematica di cristiani innocenti”. Una lettura che si inserisce in una cornice più ampia: nelle ultime settimane Washington ha imposto restrizioni sui visti a funzionari nigeriani ritenuti coinvolti nelle violenze e ha designato la Nigeria come “Country of Particular Concern” ai sensi dell’International Religious Freedom Act.

Una cornice che resta tuttavia controversa. Analisti e autorità nigeriane sottolineano come la crisi di sicurezza del Paese colpisca tanto cristiani quanto musulmani, in un mosaico di conflitti che vanno dal jihadismo armato alle tensioni intercomunitarie, dalle rivalità etniche alle lotte per l’accesso alle risorse. Il ministero degli Esteri di Abuja ha ribadito che il terrorismo “in qualsiasi forma, contro cristiani, musulmani o altre comunità, rappresenta una minaccia ai valori nigeriani e alla sicurezza internazionale”.

L’operazione

L’amministrazione Trump non ha fornito troppi dettagli operativi sull’entità dei danni né sui bersagli colpiti. Tuttavia, un funzionario del dipartimento della Difesa ha confermato, in un background per i media, che i raid sono stati effettuati in coordinamento con il governo nigeriano e con l’approvazione formale delle autorità locali. Il ministero degli Esteri di Abuja ha parlato di cooperazione basata su scambio di intelligence e coordinamento strategico, nel rispetto della sovranità nazionale e del diritto internazionale. Ci sono immagini che mostrano il lancio di Tomahwak dallo USS Paul Ignatius, che si dovrebbe trovare nell’Atlantico orientale.

Dal punto di vista operativo, l’obiettivo più probabile dei raid non sarebbe l’asse storico del Boko Haram o la sua emanazione, l’Islamic State West Africa Province, attivi soprattutto nel nord-est del Paese. Piuttosto i bombardamenti avrebbero invece preso di mira il gruppo Lakurawa, formazione jihadista meno nota ma sempre più radicata negli Stati nord-occidentali, in particolare proprio a Sokoto e Kebbi. Una presenza favorita, secondo gli esperti, dal vuoto di potere statale e dall’assenza di forze di sicurezza in vaste aree rurali e forestali.

Il messaggio politico di Washington va oltre il singolo raid

Trump ha rivendicato la capacità degli Stati Uniti di condurre “strike perfetti” e ha ribadito che gli Stati Uniti “non permetteranno al terrorismo islamista radicale di prosperare”. Una linea rafforzata anche dal segretario alla Guerra Pete Hegseth, che ha sottolineato come l’operazione sia un segnale diretto contro l’uccisione di cristiani, definendo l’attacco un avvertimento lanciato simbolicamente “la notte di Natale”.

Resta però il nodo strategico. La presenza militare statunitense in Africa sta continuando a ridursi, con partenariati ridimensionati o interrotti. Un’eventuale escalation richiederebbe il ricorso ad assetti dislocati in altre regioni del mondo. Per ora, il raid in Nigeria appare come un intervento mirato, ma soprattutto come uno strumento di pressione politica: su Abuja, sulla gestione della sicurezza interna e su una narrativa – quella della persecuzione religiosa – che Trump ha scelto di porre al centro della sua (ridotta) agenda africana.

Val la pena ricordare anche, come lettura generale di questo secondo mandato, che nel corso del suo primo anno di ritorno nello Studio Ovale, il commander-in-chief Donald Trump ha lanciato azioni contro Iran, Iraq, Nigeria, Somalia, Siria, Yemen, i Caraibi, il Pacifico. Azioni che dimostrano un impegno chiaro: Washington non rinuncia allo strumento militare su orizzonti di interesse nazionale statunitense – sebbene Trump si descriva come un “presidente della pace”.

Perché conta, per Roma

In questo contesto, una dichiarazione in cui la presidente del Consiglio Giorgia Meloni a fine novembre “condannava con forza le violenze contro i cristiani” in Nigeria, contribuisce a ricondurre il dossier nigeriano entro una cornice di interesse condiviso tra Europa e Stati Uniti. Al di là delle differenze di tono e di strumenti rispetto alla linea dell’amministrazione Trump, Roma e Washington guardano alla Nigeria come a un nodo strategico per la stabilità dell’Africa occidentale, oggi sotto pressione per l’espansione dei gruppi jihadisti e per la fragilità delle istituzioni locali.

La condanna contro chi attacca i cristiani e il richiamo alla libertà religiosa si intrecciano così con un obiettivo più ampio: evitare che l’insicurezza cronica e la radicalizzazione continuino a compromettere la stabilità di un Paese centrale per lo sviluppo africano, con effetti a catena su sicurezza, migrazioni e assetti geopolitici regionali. L’Italia inserisce il tema della sicurezza in generale nel quadro più ampio di dialogo politico ed economico, coerente con il Piano Mattei.


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