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Operation Hawkeye Strike, tra rappresaglia militare e svolta politica sulla Siria

Gli Stati Uniti hanno lanciato Operation Hawkeye Strike colpendo oltre 70 obiettivi dell’Isis in Siria in risposta all’attacco di Palmira, riaffermando una postura di deterrenza militare mirata. I raid si inseriscono però in un quadro più ampio, segnato dalla rimozione delle sanzioni a Damasco, che punta a favorire stabilizzazione, ritorno dei rifugiati e ricostruzione economica

L’operazione militare lanciata dagli Stati Uniti contro postazioni ancora controllate dallo Stato islamico (IS) in Siria non è stata solo una risposta armata a un attacco diretto, ma si è inserita in una finestra politica e strategica particolarmente delicata. “Operation Hawkeye Strike”, avviata il 19 dicembre su ordine del Commander in Chief, ha colpito oltre 70 obiettivi jihadisti nella Siria centrale, poche ore dopo un annuncio destinato a incidere profondamente sul futuro del Paese: la rimozione delle sanzioni statunitensi contro Damasco.

Secondo il Comando Centrale degli Stati Uniti (U.S. Central Command), l’operazione ha impiegato più di 100 munizioni di precisione, con l’utilizzo combinato di caccia F-15 e A-10, elicotteri d’attacco Apache e sistemi Himars. Ai raid hanno partecipato anche velivoli delle forze armate giordane (Jordanian Armed Forces), confermando il coordinamento regionale sul fronte antiterrorismo. Israele era stato invece avvisato in anticipo dell’azione.

Il War Secretary Pete Hegseth ha chiarito il carattere dell’operazione: “Operation Hawkeye Strike è stata condotta in Siria per eliminare combattenti dell’IS, infrastrutture e siti di armamenti, in risposta diretta all’attacco contro le forze statunitensi avvenuto il 13 dicembre a Palmira”. Ancora più esplicito il messaggio politico: “Questa non è l’inizio di una guerra. È una dichiarazione di vendetta. Gli Stati Uniti d’America, sotto la leadership del presidente Trump, non esiteranno mai e non arretreranno mai nel difendere la nostra gente”.

Gli attacchi sono la risposta all’imboscata di Palmira, in cui un singolo miliziano dell’IS ha ucciso due membri della Guardia Nazionale dell’Iowa e un interprete civile statunitense, prima di essere neutralizzato. Altri tre militari sono rimasti feriti. Si tratta delle prime morti in combattimento di personale Usa in Siria dal 2019. Anche il presidente Donald Trump ha rivendicato l’operazione come “una ritorsione molto seria” contro i terroristi responsabili, aggiungendo che i raid hanno colpito “roccaforti dell’Isis in Siria” e che il nuovo governo siriano sarebbe “pienamente favorevole”.

Dal terreno, organizzazioni di monitoraggio hanno segnalato forti esplosioni in più aree del Paese, confermando l’ampiezza geografica dei raid. Ma Hawkeye Strike rappresenta solo l’apice di una pressione costante: nelle settimane precedenti, forze partner sostenute dagli Stati Uniti avevano già condotto dieci operazioni tra Siria e Iraq, catturando o uccidendo 23 miliziani dell’Isis e raccogliendo intelligence determinante per le successive azioni cinetiche.

Attualmente, circa 1.000 soldati statunitensi sono dispiegati in Siria, in gran parte nell’est del Paese, con la missione di (complessa) du impedire una rinascita dello Stato Islamico – che invece sta cercando di capitalizzare tra i rancorosi del post assadismo e coloro che si sentono esclusi dal nuovo corso del poter incarnato dall’ex jihadista, ora presidente, Ahmad al Sharaa. Tra i 100 e i 150 militari sono basati presso l’avamposto di At Tanf, al confine con la Giordania, dove erano di stanza anche i militari dell’Iowa colpiti a Palmira. L’ammiraglio Brad Cooper, comandante di CentCom, ha visitato la base dopo l’attacco, riconoscendo il comportamento delle truppe sotto il fuoco e illustrando il quadro delle operazioni di risposta.

I numeri forniti da CentCom rafforzano il senso di urgenza: dal mese di luglio, forze statunitensi e partner hanno condotto oltre 80 operazioni contro l’IS in Siria, arrestando 119 militanti e uccidendone 14. Nel solo mese di novembre, forze statunitensi e siriane hanno distrutto congiuntamente 15 depositi di armi jihadiste nel sud del Paese.

La svolta sulle sanzioni: sicurezza e ricostruzione

A rendere il quadro più complesso è il tempismo politico. Poche ore prima dei raid, Washington ha annunciato la rimozione definitiva delle sanzioni imposte alla Siria con il Caesar Act, varate nel 2019 per punire il regime di Bashar Assad per le violazioni dei diritti umani durante la guerra civile. Il Senato statunitense ha votato la cancellazione permanente delle sanzioni nell’ambito della legge annuale sulla difesa, dopo che il presidente Trump le aveva già sospese temporaneamente tramite ordine esecutivo.

Secondo l’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (Unhcer), la decisione americana potrebbe avere un impatto significativo sul ritorno dei profughi e sugli investimenti. In Libano, la rappresentante dell’agenzia Karolina Lindholm Billing ha spiegato che circa 400.000 rifugiati siriani sono rientrati dal Paese dall’uscita di scena di Bashar Assad, nel dicembre 2024, mentre circa un milione resta ancora in territorio libanese. Complessivamente, oltre un milione di rifugiati è tornato dai Paesi vicini e quasi due milioni di sfollati interni hanno fatto ritorno alle proprie case.

Il problema resta la sostenibilità del rientro. I rifugiati ricevono un contributo di 600 dollari per famiglia, ma in assenza di lavoro e con abitazioni spesso distrutte, il rischio di nuovi esodi è concreto. La Banca Mondiale (World Bank) stima in 216 miliardi di dollari il costo della ricostruzione di case e infrastrutture distrutte dal conflitto. “Servono grandi investimenti e capitale privato per creare posti di lavoro”, ha sottolineato Billing, aggiungendo che la rimozione delle sanzioni “potrebbe fare una grande differenza”.

Il quadro umanitario resta però fragile. Accanto ai rientri, nuove ondate di profughi hanno lasciato la Siria dopo la caduta di Assad, in particolare membri di minoranze religiose – alawiti e sciiti – timorosi di rappresaglie. Sulla costa siriana, a marzo, centinaia di civili alawiti sono stati uccisi in episodi di violenza settaria. Circa 112.000 siriani sono fuggiti in Libano dopo la fine del regime, spesso senza status legale e con accesso minimo agli aiuti.

In parallelo, le Nazioni Unite hanno lanciato l’allarme sul calo dei finanziamenti internazionali: l’appello umanitario per la Siria del 2025 è finanziato solo al 30%, nonostante l’assistenza raggiunga 3,4 milioni di persone ogni mese.

Un doppio messaggio

Nel loro insieme, i raid contro l’Isis e la rimozione delle sanzioni delineano una strategia a doppio binario: massima fermezza sul piano della sicurezza e apertura selettiva sul fronte politico-economico. Washington segnala di non tollerare alcuna riorganizzazione jihadista, che è un presupposto nevralgico per creare le condizioni per una stabilizzazione della Siria post-Assad, anche attraverso il rientro dei rifugiati e l’avvio della ricostruzione a sostegno di al Sharaa.

Una scommessa complessa, in cui deterrenza militare e normalizzazione economica avanzano in parallelo, senza garanzie di successo ma con l’obiettivo di evitare che il vuoto siriano torni a essere terreno fertile per l’estremismo. Ma è questo il playbook sulla Siria: facilitare l’attività di ricostruzione avviata da al Sharaa, perché anche da lì passa una stabilizzazione regionale che si muove da Damasco, così come da Damasco si erano mosse enormi direttrici di instabilità – dalla costruzione dell’IS come lo abbiamo conosciuto allo slancio di una narrativa composita anti-occidentale, creata dalle attività di disinformazione russe e iraniane.

(Foto: U.S. Air Force photo)


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