Pechino avrebbe chiesto alle proprie aziende di chip che chiedono sovvenzioni statali di utilizzare almeno il 50% di strumenti nazionali. L’ennesima conferma di come, da quando Washington ha imposto i suoi limiti all’export, il governo cinese abbia intrapreso una nuova strategia, stimolando i propri talenti per accorciare il divario con gli Usa
Alle aziende di chip che intendono espandersi con l’aiuto del governo, la Cina chiede un prerequisito: utilizzare almeno il 50% delle attrezzature nazionali. A scriverlo è Reuters, nell’ennesima conferma di come sia cambiata la strategia di Pechino. Le restrizioni all’export imposte dagli Stati Uniti hanno costretto la superpotenza asiatica ad affidarsi ai propri talenti. Il divario rispetto agli americani era tanto ma, come spesso capita quando si fa di necessità virtù, lo stimolo interno ha dato i suoi frutti. Anche per questo le autorità insistono sullo stesso punto. Cercare al di fuori quando in realtà quello che serve lo si può ottenere in casa è un vantaggio notevole, che riduce i costi e la dipendenza da altri attori.
Ovviamente questo è un concetto che vale a seconda dello strumento di cui si parla. L’input di Pechino non è pubblicamente noto, ma è stato confermato da alcune fonti all’agenzia britannica. Le stesse che hanno raccontato di come i funzionari tendano a respingere le richieste che arrivano – tramite bando d’appalto – senza i giusti prerequisiti. Tuttavia sembra esserci una flessibilità, soprattutto per chi necessita di attrezzature che la Cina non ha ancora sviluppato. Quest’anno c’è stato un aumento sostanziale della domanda per quanto riguarda le tecnologie prodotte in loco: solo negli ultimi 12 mesi, sono stati 421 gli ordini per macchine e componenti litografiche nazionali.
Il cambio di passo è stato possibile solo dopo l’introduzione dei limiti alle esportazioni da parte degli Usa. Da quel momento, in Cina è scattato qualcosa. Se prima i consumatori si rivolgevano ai prodotti americani, hanno iniziato a richiedere quelli cinesi – su impulso del governo, va da sé. Le autorità centrali hanno anche cominciato a sovvenzionare le proprie aziende tecnologiche come mai prima: il Big Fund, il fondo statale, è la base per elargire finanziamenti.
La risposta è stata piuttosto positiva. Ormai un anno fa entrava sulla scena DeepSeek, considerato il perfetto rivale di Chat-GPT di OpenAI. Solo che, a differenza del chatbot a stelle e strisce, quello cinese era costato molto meno pur avendo una potenza molto simile – l’altra grande differenza sta nella censura: guai a chiedere a DeepSeek qualcosa di scabroso riguardo il governo cinese. E poi c’è Naura, il più grande gruppo di apparecchiature per chip, che starebbe provando i suoi strumenti di incisione su una linea di 7 nanometri dopo aver testato con successo quelli su 14 nanometri. Nell’ultimo anno, l’azienda ha sviluppato 779 brevetti, oltre il doppio rispetto a cinque anni fa.
Sempre per quanto riguarda l’incisione sui wafer di silicio, Pechino avrebbe ormai sviluppato un prototipo di una macchina a litografia ultravioletta estrema (Euv), capace di produrre chip di ultima generazione.
Quale sia l’obiettivo della Cina è scontato: arrivare prima degli Usa nella corsa all’intelligenza artificiale. Che ci riesca resta da vedere. Che ci stia provando è innegabile. Lo fa attraendo talenti esteri, convinti a spostarsi a Oriente da laute ricompense economiche. E lo fa stimolando le sue eccellenze. Una strategia che per adesso ha permesso a Pechino di insidiare il dominio americano, non più sicuro come un tempo.
















