La guerra informativa e la disinformazione sono strumenti strutturali della competizione strategica tra Stati. Internet e AI ne hanno ampliato portata e velocità, senza modificarne la funzione essenziale: produrre sfiducia, paralisi decisionale e frammentazione democratica. Un’analisi presentata al Parlamento britannico dal Centre for the Study of Subversion, Unconventional Interventions and Terrorism dell’Università di Nottingham, mette in guardia tanto dalla minaccia quanto dall’errore opposto, quello di sovrastimarla…
La disinformazione non nasce con i social media né con l’intelligenza artificiale, e soprattutto non è una deviazione patologica dell’ecosistema informativo contemporaneo. È, al contrario, una tecnica storicamente consolidata di competizione politica e strategica, riemersa oggi in forma accelerata e moltiplicata. È questa la premessa da cui muove l’analisi di Rory Cormac e Dan Lomas, rispettivamente professor e assistant professior di relazioni internazionali presso la Nottingham University, che invitano a distinguere con chiarezza tra ciò che è cambiato, come la scala, la velocità, l’automazione, e ciò che è invece rimasto immutato: la funzione della disinformazione come strumento di destabilizzazione sistemica.
Come giustamente osservato nell’analisi britannica, l’efficacia della disinformazione risiede nella capacità di erodere progressivamente la fiducia, di saturare lo spazio informativo con versioni concorrenti e ambigue della realtà, di rendere costosa ogni decisione pubblica. Nella capacità di produrre, tra i vari effetti, quello della paralisi, del sospetto generalizzato, dell’indebolimento delle istituzioni come arbitri legittimi del vero e del falso.
In questo quadro, gli attori ostili, statali e non statali, operano sfruttando faglie preesistenti. Le divisioni sociali, le polarizzazioni politiche, le vulnerabilità endogene delle alleanze politiche e militari, amplificate fino a diventare ingovernabili. L’innovazione tecnologica consente oggi di accelerare questo processo, ma non ne modifica la logica. Come ha insegnato la Guerra fredda, le operazioni più efficaci sono quelle che mescolano elementi reali e distorti, verità parziali e insinuazioni, rendendo il contrasto non solo difficile, ma spesso controproducente.
Dalla percezione ai costi dell’azione, della reazione e dell’inazione
Uno dei punti più rilevanti dell’analisi riguarda il rischio della reazione occidentale. Cormac e Lomas riprendono una lezione già interiorizzata a Londra negli anni Settanta. La disinformazione ha successo quando il bersaglio è convinto della sua onnipotenza. Iper-reagire, leggere ogni crisi come il prodotto di un’operazione ostile, confondere la diffusione con l’impatto significa contribuire attivamente al risultato dell’avversario. In questo senso, la percezione della minaccia diventa parte integrante della minaccia stessa.
Il documento estende questa riflessione al piano Nato o Eu, mostrando come la disinformazione sfrutti non solo le società aperte, ma anche i meccanismi di cooperazione tra Stati democratici. La condivisione di informazioni senza fonti verificabili, le asimmetrie di trasparenza tra alleati, le divergenze politiche interne ai blocchi occidentali rappresentano un terreno fertile per operazioni di inquinamento informativo. Non a caso, sottolineano gli autori, una parte crescente delle narrative destabilizzanti che colpiscono il Regno Unito nasce o viene amplificata all’interno di Paesi formalmente alleati, rendendo la risposta politicamente sensibile e strategicamente complessa.
Sul piano della risposta britannica, il giudizio è netto ma misurato. Non manca l’attività, né la consapevolezza del problema. Manca piuttosto una reale integrazione. La contro-difesa informativa resta frammentata tra dipartimenti, task force e iniziative temporanee, spesso scollegate dai processi decisionali sostanziali. La disinformazione viene trattata come un problema a sé stante, e non come una dimensione trasversale della politica estera, della sicurezza e della governance democratica. Le conclusioni dell’analisi individuano una contro-metodologia di contrasto al fenomeno. La disinformazione non si elimina, si studia e si governa. Ma per governarla, occorre meno enfasi emergenziale e più coerenza strategica attraverso l’integrazione di policy, coordinamento centrale, investimenti stabili e soprattutto lucidità analitica. In assenza di questo equilibrio, il rischio non è solo quello di subire operazioni ostili, ma di interiorizzarne la logica, trasformando la disarticolazione della fiducia democratica in un effetto collaterale accettato della competizione globale.
















