Continuare a difendere un liberalismo procedurale, fatto di regole astratte e divieti automatici, mentre il mondo investe, pianifica e protegge le proprie filiere, significa condannarsi all’irrilevanza. Non è più il tempo della neutralità. È il tempo delle scelte. La riflessione di Roberto Arditti
Ho partecipato con piacere all’iniziativa promossa da Roberto Occhiuto sulla prospettiva liberale. Un confronto serio, non rituale. Proprio per questo vale la pena chiarire un punto decisivo: oggi non basta più dirsi liberali. Bisogna spiegare quale liberalismo si intende. Perché quello classico, novecentesco, costruito sull’idea che il mercato e la concorrenza siano forze autosufficienti e quasi naturali, è stato superato dalla realtà prima ancora che dal dibattito teorico. Il tempo in cui viviamo ha prodotto una frattura storica profonda: tecnologica, geopolitica, industriale. E ogni frattura di questo tipo obbliga a riscrivere le categorie del pensiero politico. Continuare a usare gli schemi del secolo scorso per interpretare il XXI significa trasformare il liberalismo in una nostalgia ideologica, non in una visione capace di governare il presente.
Negli ultimi vent’anni il pensiero liberale si è già mosso, spesso in silenzio, in un’altra direzione. Una direzione che prende atto di un fatto semplice: mercato, tecnologia e Stato non sono più sfere separabili. La competizione globale non è tra singole imprese, ma tra sistemi economici e politici. E in questo scenario lo Stato è tornato a essere un attore strategico. Il laboratorio più avanzato di questa trasformazione resta, ancora una volta, gli Stati Uniti. Qui la rottura con il liberalismo classico è già avvenuta. E non a sinistra, ma dentro la nuova destra americana. Una destra che nasce nella Silicon Valley, non nei manuali di economia politica.
Peter Thiel lo dice senza ipocrisie: “Competition is for losers”. Non è una provocazione anti-mercato. È una critica frontale al culto della concorrenza come fine in sé. Per Thiel l’innovazione autentica nasce da posizioni dominanti temporanee, dalla capacità di creare nuovi mercati, non dalla frammentazione infinita. È una rottura esplicita con il liberalismo scolastico, quello che ha trasformato l’antitrust in una religione e l’impresa in un soggetto da contenere più che da far crescere. Alexander Karp, alla guida di Palantir, va ancora oltre. La sua idea è che nei settori strategici, dati, difesa, intelligenza artificiale, sicurezza, lo Stato non sia un intralcio, ma il principale alleato dell’innovazione. Palantir cresce grazie ai contratti con il governo federale, con il Pentagono, con le agenzie di intelligence. E negli Stati Uniti questo non viene considerato un tradimento del liberalismo, ma la sua evoluzione realistica.
Questa trasformazione è supportata anche da una riflessione teorica ormai ampia. Studiosi liberali come Francis Fukuyama hanno spiegato come la capacità dello Stato sia diventata una variabile decisiva della libertà politica. Dani Rodrik parla apertamente di necessità di politiche industriali mirate nelle democrazie avanzate. Michael Lind descrive il passaggio dal neoliberismo a un liberalismo produttivo, centrato su industria, lavoro qualificato e potere tecnologico. Tyler Cowen osserva che l’epoca dell’innovazione “facile” è finita e che la crescita va organizzata, non semplicemente attesa.
Ma più delle teorie parlano i fatti. Le decisioni dell’amministrazione americana degli ultimi anni segnano una svolta storica. Il Chps and Science Act mobilita oltre 52 miliardi di dollari di investimenti pubblici per riportare sul suolo americano la produzione di semiconduttori. Non regolazione: investimento diretto. Non neutralità: scelta politica. Intel, Tsmc, Samsung costruiscono impianti negli Stati Uniti perché Washington lo considera un interesse nazionale.
Lo stesso vale per l’Inflation Reduction Act, che destina circa 369 miliardi di dollari a energia, tecnologie verdi, batterie, filiere strategiche. È la più grande politica industriale occidentale degli ultimi decenni. Altro che mano invisibile. Un esempio emblematico è Nvidia. Oggi è il perno dell’ecosistema globale dell’Intelligenza Artificiale. Ma il suo sviluppo è inseparabile dalla domanda pubblica americana: difesa, supercalcolo, ricerca avanzata, collaborazioni con università e agenzie federali. La leadership tecnologica non nasce nel vuoto. Nasce in un ambiente strategicamente orientato.
Lo stesso discorso vale per il litio e le materie prime critiche. Gli Stati Uniti stanno investendo miliardi per costruire una filiera domestica e alleata: miniere, raffinazione, batterie. Dal Nevada al sostegno a progetti in Canada, Australia e America Latina. Perché senza controllo sulle materie prime non esiste sovranità industriale. E senza sovranità industriale il mercato è una finzione. Ecco il punto che chi ragiona di prospettiva liberale deve affrontare senza autoinganni: il liberalismo del XXI secolo non coincide più con l’idea di uno Stato che “sta indietro”. Coincide con uno Stato che seleziona, investe, orienta nei settori decisivi, lasciando al mercato il compito di competere dentro un quadro strategico.
Europa e Italia devono capirlo. Subito. Continuare a difendere un liberalismo procedurale, fatto di regole astratte e divieti automatici, mentre il mondo investe, pianifica e protegge le proprie filiere, significa condannarsi all’irrilevanza. Non è più il tempo della neutralità. È il tempo delle scelte. Il nuovo liberalismo non è meno liberale. È meno ingenuo. Ha capito che libertà, sicurezza e prosperità oggi passano dalla capacità di governare la tecnologia e l’industria, non di subirle. Aggiornare il liberalismo non significa tradirlo. Significa, semplicemente, salvarlo.
















