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Niente favole, Putin ha perso la guerra. La versione di Sisci

Il presidente Trump ha ragione a cercare affannosamente una pace, ma l’equilibrio tra Russia e Cina in questa guerra è estremamente delicato. Lo stesso futuro dell’America è a rischio. Per questo occorre forse qualcosa di più che un frettoloso piano di pace forzato sull’Ucraina, l’Europa e i partner asiatici

Non ci sono tanti giri di parole per dirlo: il presidente russo Vladimir Putin non ha vinto sul campo di battaglia. Non ha conquistato l’Ucraina, non ha cacciato i suoi leader, non ha conquistato tutto il Donbass come prometteva. Se lo avesse fatto perché non fa una sfilata di vittoria a Mosca portando in catene Zelens’kyj e i suoi gregari dietro di sé? Perché continua la guerra e continuano i morti russi, 1000 al giorno, e non c’è la pace? La risposta banale e vera è che Putin la guerra l’ha persa e continua a perderla.

La Nato si è rafforzata. I paesi europei si stanno riarmando. L’Ucraina oggi ha il più grande esercito d’Europa e una identità nazionale robusta che quattro anni fa non aveva. La Russia ha perso un milione, un milione e mezzo di uomini. Il 40% della sua economia è in spese di guerra. Continua a combattere solo grazie all’aiuto della Cina, dell’Iran e della Nord Corea, prova dell’estrema debolezza non solo della Russia ma anche di questo accrocco di alleanza. Ora forse riesce ad avere un accordo che può spacciare come vittoria, ma ce l’ha solo grazie all’America che contrariamente alla propaganda moscovita sta oggi pensando come aiutare Mosca e non l’Ucraina. È una vittoria che l’America dà alla Russia per ragioni sue.

Ma la Russia farà fatica a convincere il suo popolo e il mondo che la vittoria davvero c’è stata. Può raccontare qualunque favola, restano però le realtà del rafforzamento europeo, della Nato, l’indebolimento della Russia rispetto agli alleati cinesi o nordcoreani, le sofferenze enormi e un’opinione pubblica mondiale, della stampa libera, che continuerà a essere filo Ucraina, antirussa e racconterà la sconfitta di Putin.

Qui ci sono due derive della storia, una russa e una americana. La prima, quella russa, è che bisogna aiutare Putin e salvarsi da sé stesso. Questo però deve servire a creare una stabilità di lungo termine e non le premesse di una nuova guerra tra cinque o dieci anni. La guerra in preparazione nel prossimo futuro è ulteriore prova del sentimento profondo di sconfitta che c’è a Mosca. Il punto vero è che la Russia e Putin devono essere salvati dal mito della vittoria militare come elemento salvifico della nazione. La Russia ha enormi potenzialità di crescita economica ed è lì che deve concentrarsi.

Altro punto è la stanchezza dell’America nel suo faticoso ruolo di poliziotto globale. Alcuni isolazionisti vorrebbero concentrare l’America sul continente americano e lasciare il resto del mondo a partner con cui venire a patti. Certo, è un’idea che potrebbe funzionare, vista da Washington. Ci sono tuttavia dei problemi se davvero venisse applicata.
Il mercato americano oggi raccoglie il 70% di tutta la quotazione del mercato globale. Se il mondo fosse diviso in sfere di influenza e l’America si ritirasse in un suo bacino, naturalmente anche gli investimenti globali si distribuirebbero diversamente. Nella migliore delle ipotesi all’America resterebbe il 30-35% del mercato mondiale, circa la metà delle quotazioni attuali. L’economia americana per intero subirebbe una contrazione forse parallela e il debito pubblico, oggi sostanzialmente sottoscritto dal mondo, peserebbe solo sulle spalle dei cittadini statunitensi. Essi potrebbero non farcela a sostenerlo.Il presidente Donald Trump sta firmando una serie di accordi bilaterali che in teoria dovrebbero compensare un ribasso del mercato azionario. Ma questo solo in teoria. Se l’America si ritirasse davvero in un suo ambito strategico limitato, molti degli accordi bilaterali naturalmente non sarebbero onorati, perché erano stati sottoscritti quando l’America raccoglieva 70% del mercato mondiale e aveva interessi globali.

L’America ha oggi dei problemi certamente enormi di fronte alla sfida cinese. Ma la Cina è arrivata qui con un programma di lungo termine, non trovate estemporanee. Il che significa che se l’America vuole davvero affrontarla deve pensare in termini cinesi, con un programma di lungo termine. La questione delle terre rare ne è una prova. Gli americani sapevano da tempo dell’arma negoziale delle terre rare in mano a Pechino, ma semplicemente hanno pensato che Pechino non sarebbe arrivata a un blocco. Invece così non è stato. L’America deve pensare in termini diversi.

Un elemento interessante in questa dimensione è il comportamento della Cina verso la Russia. Sostiene Mosca, la rende capace di affrontare la guerra, ma non di vincerla. Pechino aiuta Mosca ma sempre tenendo presente un ritorno commerciale preciso. Si mantiene prudente pronta a sfilarsi o cambiare direzione se ci fossero cambiamenti di qualunque tipo a Mosca. Questo atteggiamento funziona però fin quando la guerra non si protrae troppo a lungo. Con l’allungarsi dei tempi del conflitto, la posizione di Pechino diventa più delicata. La Russia deve decidersi se svenarsi per pagare Pechino oppure arrendersi all’Ucraina. Oggi naturalmente la scelta è ovvia: svenarsi per Pechino. Ma se il sanguinamento russo continuasse e aumentasse con il protrarsi dei combattimenti, allora i sentimenti potrebbero cambiare. Questo è un problema per Mosca, ma è anche un problema per Pechino. Oggi i rapporti Mosca-Pechino hanno trovato una forma di equilibrio. Ma se i sacrifici russi diventano troppo grandi allora Pechino ha di fronte la scelta di abbandonare Mosca al suo destino, con effetti imponderabili, oppure aiutare davvero la Russia spendendo risorse proprie. Con un’economia interna in affanno la scelta potrebbe essere difficile.

Il presidente Trump ha ragione a cercare affannosamente una pace, ma l’equilibrio tra Russia e Cina in questa guerra è estremamente delicato. Lo stesso futuro dell’America è a rischio. Per questo occorre forse qualcosa di più che un frettoloso piano di pace forzato sull’Ucraina, l’Europa e i partner asiatici.

(Traduzione dell’articolo originale pubblicato sul sito di The Appia Institute)


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