L’attacco dell’ambasciata russa sul caso Napoli rientra in una strategia comunicativa volta a delegittimare il dibattito pubblico italiano e a colpire un Paese considerato allineato a Kyiv. La narrativa dell’“ucrainizzazione” appare così come uno strumento propagandistico che ribalta il dissenso democratico in accusa di repressione
L’attacco verbale dell’ambasciata russa in Italia sull’episodio avvenuto il 22 dicembre all’Università Federico II di Napoli va letto per ciò che è: non la reazione a un fatto specifico, ma l’ennesimo tassello di una strategia comunicativa consolidata con cui Mosca tenta di delegittimare il dibattito pubblico nei Paesi occidentali e, in particolare, in quelli più esposti sul fronte del sostegno all’Ucraina.
Secondo la versione diffusa dall’ambasciata russa e rilanciata dall’agenzia statale Tass, una conferenza organizzata dalla sezione locale dell’Anpi sarebbe stata teatro di un vero e proprio “agguato” contro alcuni relatori, vittime – nella ricostruzione russa – di vessazioni da parte di “nazionalisti ucraini” con la complicità di attivisti e politici italiani.
Da qui l’accusa più ampia e ideologicamente connotata: l’Italia starebbe vivendo un processo di “ucrainizzazione” della politica e della vita pubblica, intesa come importazione di intolleranza, repressione del dissenso e radicalismo.
I fatti, per come emergono dai video circolati sui social e dalle testimonianze dei partecipanti, raccontano però una realtà molto diversa. Durante l’evento si sono verificate contestazioni e momenti di tensione verbale, ma non risultano aggressioni fisiche né episodi riconducibili a un clima di violenza organizzata. Alcuni studenti e attivisti pro-Ucraina hanno posto domande critiche ai relatori sulla guerra e sui loro rapporti con Mosca, esercitando una forma di dissenso che rientra pienamente nelle dinamiche, talvolta aspre, del confronto pubblico.
È proprio questo scarto tra realtà e narrazione a rendere significativo l’intervento dell’ambasciata russa. La protesta viene trasformata in “vessazione”, il dissenso in “repressione”, la critica in “nazionalismo”. Un ribaltamento semantico funzionale a un obiettivo preciso: presentare l’Italia come un Paese che avrebbe smarrito i propri principi democratici per allinearsi a Kyiv e, per estensione, all’Occidente. In questa cornice, la nozione di “ucrainizzazione” diventa una categoria propagandistica, non un’analisi politica.
La reazione di esponenti politici italiani, in particolare di Azione Carlo Calenda e di quello +Europa e dei radicali Matteo Hallissey, ha contribuito a riportare la discussione su un piano più aderente ai fatti, respingendo l’idea che una contestazione pacifica possa essere assimilata a una forma di intimidazione o di censura. Al di là dei toni, il punto centrale resta però un altro: la pretesa russa di definire i confini del dibattito pubblico italiano e di attribuire a Mosca un ruolo di arbitro morale sulle dinamiche interne di un Paese sovrano.
Non è un caso che università, associazioni e spazi civici diventino sempre più spesso oggetto di attenzione nella comunicazione russa. Sono luoghi simbolici, in cui il pluralismo e il confronto – anche duro – sono fisiologici. Trasformarli in prova di una presunta deriva autoritaria consente a Mosca di alimentare una narrativa vittimistica e di rafforzare, sul piano interno ed esterno, l’idea di un Occidente ipocrita e repressivo.
In questo senso, il caso Napoli ha un valore che va ben oltre l’episodio in sé. Mostra come la Russia continui a utilizzare un linguaggio fortemente ideologico e accusatorio per colpire Paesi europei considerati politicamente ostili, cercando di spostare il confronto dal piano dei fatti a quello delle etichette e delle emozioni. Per l’Italia, la sfida non è rispondere colpo su colpo sul terreno della propaganda, ma mantenere saldo il principio che il dissenso, anche quando è scomodo, resta parte integrante della democrazia. Ed è proprio questo, paradossalmente, ciò che la narrativa russa finisce per mettere in discussione.
















