Skip to main content

La Russia, l’Ucraina e la logica del ”reciproco assedio”. L’analisi di Polillo

La guerra è un puzzle più che complicato, che non spinge all’ottimismo. Ed è per questo che il mondo sta rispondendo con crescente nervosismo. L’epicentro del turbamento è ovviamente l’Europa, presa in una tenaglia tra la Russia di Putin e l’America di Trump. Difficile prevedere come andrà a finire questo braccio di ferro. Ma la debolezza della strategia perseguita da Putin è evidente fin da ora. Come le relative responsabilità. L’analisi di Gianfranco Polillo

Non sarà facile uscire dal pantano dell’Ucraina. Non lo sarà per Volodymyr Zelensky, cui va tutta la solidarietà, ma non lo sarà neppure per Vladimir Putin, i cui sogni di gloria sono, nel frattempo, in larga misura svaporati. Quest’ultimo non sarà ricordato come l’erede di Pietro il Grande, primo imperatore di quella parte di mondo che fece uscire Santa Madre Russia dal suo passato barbarico, per approdare sulle sponde della modernità: fin da allora appannaggio esclusivo dell’Occidente. Ed ancor meno di Vladimir o Nikolaj Lenin, che dir si voglia. Non solo il padre della Rivoluzione d’Ottobre. Ma colui che riuscì a contaminare, con il marxismo, il vecchio ed arretrato ceppo culturale del populismo russo.

Sarà invece ricordato per il suo avventurismo. Per non essere riuscito a domare un popolo, dopo una guerra lunga, sanguinosa e sanguinaria. Altro che un Blitzkrieg. Com’era nelle sue irrealistiche intenzioni. Quella lunga fila di carri armati che passano i confini, per essere quasi immediatamente fermati. La “guerra di movimento” che, in un battibaleno, si trasforma in “guerra di posizione” e quindi in un “reciproco assedio”, per usare le categorie care ad Antonio Gramsci. Rendendo da quel momento ogni soluzione pacifica estremamente difficile, se non impossibile. Cosa da non auspicare.

Tra i tanti errori di valutazione da parte dello Zar di Mosca, forse quello più grave è stato quello di aver voluto vendere la pelle dell’orso prima di averlo catturato. Annettendosi i territori del Donbass (gli oblast di Donetsk, Luhansk, Zaporizhzhia e Kherson) con quel referendum farsa, per dare all’aggressione una patina fasulla di legittimità giuridica, di fatto si è legato le mani. La richiesta assillante di ottenere nel negoziato anche quelle parti del territorio ucraino, che la sua poco invincibile armata non era riuscita a conquistare, ne è la dimostrazione.

Com’è noto, se Zelensky cedesse, dovrebbe consegnare la cintura fortificata di Slovyansk, Kramatorsk e Kostyantynivka, che impedisce l’accesso dei russi alla pianura verso Dnipro. Ancora oggi eroicamente difese. A quel punto raggiungere Odessa sarebbe un gioco da ragazzi. All’intera Ucraina verrebbe, quindi, negato ogni possibilità di libero accesso al mare, rendendola di fatto schiava dei voleri di Mosca. Il tutto alla fine di una guerra durata quattro anni, una resistenza eroica, una capacità diplomatica eccezionale, oltre che migliaia di morti ed il tentativo di mettere a ferro e fuoco l’intero Paese.

Ma anche volendo (e Zelensky non vuole) la realizzazione di un simile progetto sarebbe reso impossibile dai vincoli di natura costituzionale, che caratterizzano l’ordinamento giuridico dell’Ucraina. Possono essere aggirati con un semplice referendum? Difficile rispondere. Se ne potrebbe discutere se Mosca accettasse l’idea di una tregua, per i necessari adempimenti. Un bis della situazione coreana. Ma non è questo che il Cremlino desidera. Forse scottato dal fatto che quella stessa distinzione, che pure doveva essere temporanea, data invece dagli inizi degli anni ‘50. E che mentre la Corea del Sud è diventata, nel frattempo, una grande potenza economica e finanziaria, quella del Nord sprofonda nell’inedia, grazie ad un dittatore con lo sghiribizzo di essere un feroce guerrafondaio.

Putin, per contro, è messo ancora peggio. Può infatti rinunciare a quella parte del territorio appena portato in dote a Santa Madre Russia? Ecco le conseguenze perverse del “reciproco assedio”. Se compisse un simile atto, dopo aver mandato a morire migliaia di persone, aver militarizzato l’economia del Paese, aver imposto ai suoi cittadini una politica di “lacrime e sangue”, quali sarebbero le conseguenze? Potrebbe ancora considerarsi un grande leader? Il prestigio della Russia crescerebbe? O non farebbe il gioco non tanto degli americani, quanto dei cinesi: che sono poi i suoi veri concorrenti?

La densità demografica della Federazione Russa è di 8,5 abitanti per chilometro quadrato. Quella cinese di 153. La prima cresce al ritmo dello 0,04% all’anno. Quella cinese dello dello 0,39. Quasi dieci volte tanto. I confini tra queste due distinte realtà misurano oltre 4.000 chilometri. In passato sono stati oggetto di dispute che hanno portato a scontri armati, come quelli sul fiume Ussuri. Certo: oggi “l’amicizia è senza limiti”. Ma l’enfasi riposta in questa dichiarazione d’intenti non deve confondere.

La Cina è a due passi da una terra disabitata come la Siberia, che è una specie di grotta di Alì Babà quanto a materie prime, terre rare, materiali preziosi. In cui i suoi cittadini possono già entrare senza mostrare il passaporto. È titolare di un soft power che non lascia scampo. Se oggi Donald Trump è disposto a tutto per favorire Putin, lo fa anche perché teme che Pechino possa fagocitare Mosca. Depredarla di quelle risorse naturali di cui la industria dell’ex Celeste impero ha un estremo bisogno. A partire dalle forniture energetiche. Una conquista che renderebbe ancora più potente il più diretto competitor della supremazia a stelle e strisce.

Come si vede un puzzle più che complicato, che non spinge all’ottimismo. Ed è per questo che il mondo sta rispondendo con crescente nervosismo. L’epicentro del turbamento è ovviamente l’Europa, presa in una tenaglia tra la Russia di Putin e l’America di Trump. Quest’ultimo strattonato dagli alleati di un tempo – gli europei (i “maialini da latte” secondo il nuovo lessico dello Zar) – e la voglia di compiacere il Cremlino, nella speranza di fare argine alla Cina. Difficile prevedere come andrà a finire questo braccio di ferro. Ma la debolezza della strategia perseguita da Putin è evidente fin da ora. Come le relative responsabilità.

La Nato, nonostante le sue difficoltà interne, si è rafforzata. I nuovi ingressi di Svezia e Finlandia ne hanno esteso le difese. La stessa Svizzera, simulacro di neutralità, è costretta a riorganizzare le sue forze militari. In prospettiva la delega concessa negli anni passati agli Stati Uniti, in tema di difesa e deterrenza, dovrà essere sostituita da una partecipazione attiva. Ci saranno sacrifici da compiere, ma l’Europa, sia in termini demografici (5 volte la popolazione russa), che in termini di Prodotto interno lordo (quasi 12 volte) è in grado di reggere la sfida. Rimane l’incognita nucleare. Ma è un rischio da correre. Tanto più se si considera che dai tempi di Hiroshima e Nagasaki – il 6 agosto saranno 81 anni – nessuno ha avuto il più coraggio di utilizzare quegli ordigni. Per cui una ragione dovrà pur esserci.


×

Iscriviti alla newsletter