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Si incendia lo scontro Usa-Ue sulla regolamentazione tech. Ecco il motivo

Da Washington arriva una minaccia che sa tanto di ultimatum. La richiesta è sempre la stessa, modificare il sistema normativo che penalizza le aziende americane, ma viene accompagnata con la possibilità di ritorsioni qualora la situazione continui a rimanere tale. Un esempio di quello che potrebbe accadere in futuro arriva dal Regno Unito

“Se l’Unione europea e gli Stati membri insistono nel continuare a limitare, restringere e scoraggiare la competitività dei fornitori di servizi statunitensi attraverso mezzi discriminatori, gli Stati Uniti non avranno altra scelta che iniziare a utilizzare ogni strumento a loro disposizione per contrastare queste misure irragionevoli”. La minaccia è firmata dal Rappresentante per il Commercio degli Usa, organo consultivo della Casa Bianca per le questioni legate al commercio internazionale, sintetizzata in un post su X. In cui si legge che “qualora fossero necessarie misure di risposta, la legge statunitense consente, tra le altre azioni, la valutazione di tariffe o restrizioni sui servizi esteri. Gli Stati Uniti – viene aggiunto – adotteranno un approccio simile a quello degli altri paesi che perseguono una strategia in stile Ue in questo settore”. La questione è nota, con gli Usa che lamentano un trattamento poco favorevole da parte degli europei nei confronti delle aziende americane. E per chiesto chiedono meno regolamentazione, che rischia di soffocare l’innovazione. Ma con questo messaggio Washington compie un salto in avanti nella pressione su Bruxelles.

I legislatori statunitensi, scrive il New York Times, sono piuttosto innervositi dal non vedere cambiamenti. Più volte hanno chiesto all’Ue di invertire la rotta, una richiesta pervenuta anche da Donald Trump in persona. Senza successo. “Hanno continuato a perseguire cause legali, imposte, multe e direttive discriminatorie e vessatorie nei confronti dei fornitori di servizi statunitensi”, continua il Rappresentante del Commercio nella sua invettiva. Lo fa ricordando il ruolo centrale di quelle aziende americane, che “forniscono servizi gratuiti sostanziali ai cittadini dell’Ue e servizi aziendali affidabili alle società europee e sostengono milioni di posti di lavoro e oltre 100 miliardi di dollari di investimenti diretti in Europa”. Solo nelle ultime settimane, le autorità europee hanno multato X per 140 milioni di dollari e hanno intentato cause contro Google, Microsoft, Amazon e Meta. “In netto contrasto, i fornitori di servizi europei hanno potuto operare liberamente negli Stati Uniti per decenni, beneficiando dell’accesso al nostro mercato e ai consumatori in condizioni di parità”. Tra questi ci sono Accenture, Amedeo, Capgemini, Dhl, Maestrale, Publicis, SAP, Siemens e Spotify.

Lo scontro dunque si fa molto più acceso. Confermando l’intenzione del governo degli Stati Uniti di andare avanti con la strada intrapresa, nella speranza che lo storico alleato transatlantico possa comprendere le sue ragioni. Per ora non sembra così. “Le nostre regole si applicano in modo equio e imparzilale a tutte le aziende che operano nell’Unione europea e continueremo ad applicarle senza discriminazioni”, è la risposta che arriva dalla Commissione europea.

Per capire cosa potrebbe accadere nel prossimo futuro bisogna guardare a quanto si sta verificando sull’asse anglosassone Usa-Uk. Stati Uniti e Regno Unito erano infatti giunti a un accordo a maggio, in quella che è stata la prima intesa con Washington da parte di un paese europeo (sebbene extra-Ue). La partnership serviva ad addolcire l’impatto dei dazi americani e si incentrava anche su una collaborazione tra i due paesi in materia tecnologica e di energia nucleare. Ma il Tech Prosperity Deal da 40 miliardi di dollari sarebbe partito solamente quando la Gran Bretagna avrebbe eseguito alcuni compiti, come quella di modificare la sua imposta sui servizi digitali. E siccome sembra non aver adempiuto ai suoi doveri, Washington ha deciso di bloccare tutto finché non vedrà dei progressi, anche se a Downing Street continuano ancora a credere che l’accordo sia ancora valido. Il che è vero, ma solo se viene incontro alle richieste pattuite.


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