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Siccome Dio non poteva essere dappertutto, inventò le mamme

Il regista canadese Ken Scott con C’era una volta mia madre ci parla, senza falsi pudori, di famiglia, mamma elicottero, handicap, musica, gioia di vivere, con umorismo e gag a mitraglia, rinnovando la sophisticated comedy (magari con una lacrima). Sarà un film-cult. La recensione di Eusebio Ciccotti

C’è una didascalia che Charlie Chaplin inserisce come presentazione di The Kid (1921): “A picture with a smile – and perhaps, a tear” (“Un film con un sorriso e forse una lacrima”). Con questo film, semplicemente un capolavoro, inventava una variante della commedia umoristica, quella dove si ride e ma anche attraversata fulminei lampi di tristezza, capaci di generare, negli spettatori più sensibili, una goccia di acqua salata dalle sacche lacrimali. Un genere misto che toccherà alte vette nella sua filmografia con Il circo, Luci della città, Tempi Moderni. E quando la sophisticated comedy hollywoodiana raggiunse la sua maturità nel cinema parlato, non dimenticò questa variante chapliniana, molti sorrisi e ogni tanto una lacrima: da A Billet of Divorcement (1932, George Cukor, con una notevole Katharine Hepburn), passando per di It Happened One Night (1935, Frank Capra, qui l’eccellente Clarke Gable) e Ninotchka (1939, c’era la divina Greta Garbo, da incatenarti alla poltrona), sino a A Wonderful Life (1946, Frank Capra: un monumentale James Stewart): per ricordarne qualcuno.

La storia di C’era una volta mia madre (Once Upon My Mother, 2025, di Ken Scott), ci porta dentro una numerosa famiglia marocchina trapiantata alla periferia di Parigi, negli anni Sessanta, che si tiene unita, grazie alla onnipresenza della mamma chioccia, Esther (l’insuperabile Leïla Bakhiti), vulcano di energia, ottimista oltre l’impensabile: un racconto lubrificato di svolte, sgommate, sorpassi, grazie a dei dialoghi e a una recitazione da far allibire la generazione dell’Actor’s Studio. La trama ruota intorno al piccolo Roland (Naël Rabia), e poi adulto (Jonathan Coen), nato con un piede orto. La mamma, ebrea sefardita, prega ogni giorno i suoi santi, aspettando il miracolo, rifiutando sia l’operazione, che non garantisce il risultato, sia l’applicazione di un tutore alla gamba. E siccome il miracolo tarda a venire, insiste con tutti i medici e gli specialisti: attraversa Parigi in lungo e in largo, con in braccio Roland, per anni e anni. Ascolta parerei su pareri: ognuno consiglia il tutore. Ma ella dice “no”: suo “figlio deve camminare come gli altri bambini”.

Le giornate sono senza fine e Roland, uccide il tempo sul pavimento, ascoltando le canzoni di Silvye Vartan, che manda a ruota sul suo giradischi a 45 giri, centinaia di volte, stressando fratelli e sorelle intenti allo studio, ma sempre difeso dalla mamma. Con i suoi primi piani Scott fa parlare gli occhioni di Naël: che dicono e sognano. Il giovane attore comunica i suoi diversi stati psicologici, che scolorano uno nell’altro, man mano che affronta nuove situazioni, con la medesima acribia di un bambino sul set di Vittorio De Sica o Luigi Comencini.

Passano gli anni. Cercando sui giornali Esther trova una guaritrice che adotta una trazione meccanica sul piede, con spaghi e dei blocchi a stanghette, simile più a un’imbracatura da cantiere edile che a una autentica terapia medica. Terapia cui Roland, quando è solo in casa, se ne libera. Col tempo, però, su insistenza della asfissiante mamma, riesce a camminare, prima, piano piano e poi con più sicurezza. Finalmente può andare a scuola. Indossando pantaloni lunghi, l’andatura claudicante non si nota molto (ma talvolta qualcuno se ne accorge).

Ora, da giovane esperto di musica scrive per una rivista gestita da coetanei, che lo invia ad intervistare Silvye Vartan, visto che ben conosce i sui successi.  All’università Roland (ora è il Jonathan Cohen), si innamora di Litzie, (è la delicata ma decisa Joséphine Japy) maritata da pochi mesi. Ma siccome scocca un colpo di fulmine a doppio senso, la neo- sposina si rende conto che non ama suo marito. Divorzia e sposa Roland. Ormai Roland è un avvocato stimato nel quartiere; inizialmente i clienti, quasi tutti dei vicini, sono ricevuti nel piccolo interno popolare. La madre, neanche a dirlo, gorgheggia nel fare da “segretaria”, ma s’impiccia troppo delle questioni riservate e ne le capita di parlarne nel quartiere, generando i primi seri dissapori con il figlio.

La notorietà di Roland cresce. Interviste radiofoniche, numerosi clienti facoltosi: ecco uno studio e poi un altro più grande. Assume altri giovani avvocati, ognuno con la sua scrivania: la mamma lo segue sempre: ora pretende una scrivania anche lei! Per stargli accanto. Roland, per la prima volta, è costretto a cacciarla via in malo modo. Successivamente il caso vuole che come avvocato venga scelto proprio da Silvye Vartan, quel suo mito giovanile e adolescenziale che gli ha riempito le vuote giornate, gli ha donato gioia, quando strisciava sul pavimento di casa per spostarsi di camera in camera. La madre ora è invecchiata. I due si riavvicinano quando ella, malata, finisce in ospedale. Ma prima di andarsene compie un’ultima intromissione nella vita di suo figlio, ora vedovo (Litzie è venuta a mancare per un tumore fulmineo), con tre figli.

Quando c’era mia madre, tratto da un romanzo-verità, Ma mère, Dieu et Silvye Vartan di Roland Perez, è racconto di cinema puro, dove si ride e poi ci si stringe il cuore, per qualche minuto (ad esempio, per la perdita della giovane moglie e mamma Litzie). Si può leggere come uno spaccato di antropologia urbana della Parigi popolare degli anni Sessanta, un trattato di psicologia sugli eccessi della mamma “elicottero”, un filologico omaggio ai successi di Silvye Vartan (che appare in una scena finale). Ogni battuta è studiata con attenzione, come i movimenti di camera che spesso opta per la tatami-camera, ossia a fil di pavimento per stare all’altezza del piccolo Roland mentre osserva il mondo in alto (incluse le gambe delle amiche delle sorelle durante le feste). La ripresa del basso è insistita in una riuscita scena in esterni quando ci mostra le gambe di Esther, riprese in accelerato, nelle vie di Parigi, per cercare aiuto per il piccolo Roland: il carrello in dettaglio sui piedi della donna, quasi traduce i pensieri di Esther: ‘tu dovrai camminare come cammino io’

I temi di Quando c’era mia madre sono diversi e analizzati con ironia filosofica: l’eccessiva presenza della madre “elicottero”, sino a strapparci sonore risate quando seriamente pretende una scrivania nel grande studio di avvocati; il coraggio del piccolo Roland nel chiamare suo il problema con il “vero” nome: “Mamma basta! Voglio essere un handicappato!”, sbotta un giorno il bambino, sgranando i suoi occhioni neri; una famiglia in cui il padre, un buon lavoratore con il limite di scolorire la sua presenza in casa di fronte all’attivismo frenetico di Esther; la critica alla obsoleta didattica scolastica pronta a rifiutare il ragazzo “con problemi” (Esther arma una colossale piazzata, ammutolendo l’insegnante di danza che aveva offeso Roland di fronte a tutta la classe).

La chiusa è il sincero saluto (e perdono) di Roland verso su madre, in un cimitero con croci e tombe ebree, e magari musulmane, in un abbraccio fortemente ecumenico. La voce di Roland in over, mentre la camera si alza a gru sul cimitero verso l’orizzonte, dice: “Uno scrittore inglese ha detto che quando Dio s’accorse di non potere esser da tutte le parti, inventò le mamme”.

Qui il link al trailer


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