Nel momento forse più complesso per l’Ucraina, quando il Cremlino alza sempre di più il tiro e non sembra intenzionato a sedersi al tavolo negoziale, l’Italia tentenna. Divisa tra l’attendismo di Fratelli d’Italia e le posizioni filo-russe della Lega. La guerra ibrida è già una realtà da anni e Cavo Dragone lancia un allarme reale. Colloquio con il deputato del Pd, Filippo Sensi
A forza di ambiguità, si rischia grosso. Nel momento forse più complesso dall’inizio dell’invasione russa, l’Ucraina continua a chiedere sostegno all’Occidente mentre l’Europa fatica a trovare una linea comune. In Italia, secondo il deputato dem Filippo Sensi, l’azione del governo Meloni appare incerta, contraddittoria, prigioniera delle tensioni interne alla maggioranza. La gestione degli aiuti militari, l’ambiguità verso Washington e Bruxelles e l’assenza di un ruolo italiano nel percorso diplomatico espongono Roma a una progressiva marginalizzazione. Nel frattempo Volodymyr Zelenskyy gira le capitali europee in cerca di certezze, evitando però l’Italia. Con Sensi, su Formiche.net, analizziamo responsabilità, omissioni e rischi di questa fase cruciale.
Onorevole Sensi, lei sostiene che il governo abbia “perso la bussola” proprio nel momento più delicato per l’Ucraina. Che cosa intende?
L’impegno per l’Ucraina viene proclamato a parole, ma non si vede nei fatti. È un governo che ribadisce fedeltà agli alleati, ma quando c’è da prendere decisioni concrete sparisce. L’ultimo esempio è lo stop & go sulle armi, ma l’invio dei generatori elettrici: un contributo irrilevante, niente rispetto a ciò di cui Kiev ha bisogno e a ciò che i nostri partner europei stanno facendo. È come se, nel momento di prova, l’esecutivo avesse smarrito la direzione.
Si è parlato molto del Consiglio dei ministri che avrebbe dovuto dare il via libera alle armi. Prima la notizia, poi la marcia indietro. Che cosa rivela questa dinamica?
Rivela improvvisazione e paura. Da Palazzo Chigi si fa filtrare che il via libera è in arrivo, poi tutto rientra. Poi Meloni prende tempo e dice che si può fare tutto entro la fine dell’anno. È la dimostrazione di una linea politica fragile, condizionata dai veti interni. Se il governo crede davvero nel sostegno a Kiev, perché esitare? Se esita, è perché al suo interno non c’è accordo.
Lei chiama in causa la Lega e un atteggiamento “remissivo” di Fratelli d’Italia. Quanto pesano le posizioni filorusse nel Carroccio?
Pesano moltissimo. La Lega continua a mantenere un’ambiguità di fondo, quando non una simpatia esplicita per le posizioni di Mosca. E FdI, invece di imporre una linea chiara, tace per evitare tensioni che potrebbero ripercuotersi sulla manovra o sulla tenuta interna della coalizione. Il risultato è l’immobilismo.
Il governo rivendica comunque un impegno costante. Non è sufficiente l’invio di generatori elettrici e aiuti non militari?
No, non basta. L’Ucraina non chiede parole o simboli, chiede strumenti reali per difendersi. Mentre molti Paesi stanno rafforzando gli aiuti militari, noi ci presentiamo con interventi marginali. È un segnale di scarsa credibilità, oltre che di distanza concreta dai nostri impegni.
“Un conto è è difendere l’Ucraina, altra cosa è alimentare una guerra. Una semplice proroga sull’invio delle armi rischia di non essere allineata al percorso negoziale”, ha detto il leghista Massimiliano Romeo. Come legge queste dichiarazioni?
Senza un’Ucraina che può difendersi non esiste alcun negoziato serio. Dire che aiutare Kiev ostacola la pace è un ribaltamento della realtà. È la retorica di chi vuole giustificare l’inazione. Nel frattempo, decine di persone muoiono ogni giorno.
Passiamo agli Stati Uniti. Lei dice che Washington sta “facendo tutte le parti nella tragedia”, tra falchi e amici di Putin. L’ambiguità americana rischia di minare il percorso verso la pace?
Sì, certo. Gli Stati Uniti oscillano tra chi vorrebbe un coinvolgimento più deciso e chi invece continua a strizzare l’occhio alla Russia o a spazientirsi per la durata del conflitto. Ma non può esistere una “pace imperiale” imposta da Washington e Mosca. Il piano di pace deve includere l’Ucraina e l’Unione europea in modo sostanziale. La prima bozza americana, onestamente, sembrava più una resa che una soluzione.
Zelensky è andato da Macron e in altre capitali europee, ma non in Italia. Lei sostiene che il governo non sappia “cosa dirgli e cosa dargli”. Che cosa dovrebbe fare invece Roma per tornare centrale?
Dovrebbe mantenere gli impegni presi, prima di tutto. Zelenskyy gira l’Europa per costruire una posizione negoziale forte, per arrivare a una pace giusta e non a un diktat. In Francia ha trovato certezze, in altri Paesi strumenti e volontà. In Italia, purtroppo, troverebbe solo ambiguità e esitazioni. Finché non sciogliamo questi nodi, non saremo un interlocutore credibile.
L’Italia sta rinunciando a un ruolo da protagonista nella gestione del conflitto e del negoziato?
Sì. Non abbiamo una posizione autonoma né un’iniziativa diplomatica all’altezza. Stiamo assistendo e basta, lasciando che altri guidino processi nei quali dovremmo essere presenti. Così ci allontaniamo non solo dall’Ucraina, ma anche dai nostri partner europei più solidi.
Lei parla di guerra ibrida e cita l’allarme lanciato dall’ammiraglio Cavo Dragone. Che livello di infiltrazione attribuisce oggi alla Russia sulle opinioni pubbliche e sui partiti europei?
La Russia lavora da anni sulle vulnerabilità delle nostre democrazie: interferenze, campagne di disinformazione, relazioni ambigue con partiti e movimenti. È una penetrazione costante, che colpisce proprio dove l’opinione pubblica è più esposta. Le parole di Cavo Dragone sono quelle di chi conosce bene il quadro: siamo già dentro una guerra ibrida dichiarata da decenni da parte della Russia.
Paesi come Georgia, Romania e Moldova vivono da anni sotto attacco cyber. L’Italia è consapevole della portata della minaccia o resta scoperta?
Credo che non ci sia ancora piena consapevolezza. Il tema cyber è reale, concreto, quotidiano. Gli Stati più esposti ci mostrano cosa potrebbe accadere anche a noi. Serve un cambio di passo, un investimento serio, una strategia che oggi non vedo.
Negli ultimi mesi la presidente Meloni richiama spesso lo “spirito dell’Occidente”. Un anelito a recuperare una base valoriale comune come antidoto anche a queste forme di penetrazione?
Mi colpisce questo spostamento lessicale. Un tempo Meloni si affannava a mostrarsi europeista, ora sembra voler rimpiazzare l’Unione europea con una categoria vaga, quella dell’“Occidente”. È un modo per nascondere le divisioni del centrodestra sull’Ue, per annacquare differenze profonde. Ma è anche un modo per togliere centralità al nostro vero ancoraggio politico.
Secondo lei il ruolo dell’Italia nell’Ue sta svanendo?
Se non partecipiamo, se non proponiamo, se restiamo cauti per non disturbare equilibri interni alla maggioranza, inevitabilmente scompariamo dai processi che contano. È una scelta politica, non una fatalità.
Che cosa servirebbe, concretamente, per rimettere l’Europa al centro della politica estera italiana?
Servirebbe consapevolezza della centralità culturale, politica e militare dell’Europa. Il nostro campo di gioco è quello: non c’è altra dimensione che possa sostituirlo. Dobbiamo tornare a essere protagonisti, non spettatori. E per farlo bisogna avere una visione chiara e il coraggio di sostenerla, anche quando crea tensioni interne.
















