Ad aderire al Piano strategico nazionale sono sempre più enti centrali e locali, segno che c’è voglia di accelerare la transizione digitale. Ma l’idea del governo è di sfruttare le big tech americane solo come fornitori, lasciando la gestione dei dati alle aziende italiane. Una cautela che rischia però di disincentivare gli investimenti, che vanno altrove come dimostra il piano che Google ha per la Germania
A leggere i dati verrebbe da sorridere: negli ultimi due anni, le amministrazioni centrali e locali che hanno aderito al cloud di Stato del Polo strategico nazionale sono state 456. Se prima erano 120, oggi sono 576, ovvero 211 PA centrali, 221 PA locali e 144 tra Asl e aziende ospedaliere. I contratti chiusi, scrive Il Sole 24 Ore, hanno una durata di dieci anni e ammontano a 3,6 miliardi di euro. Un bel numero, che dimostra come la Pubblica Amministrazione stia recependo la Strategia nazionale emanata dal governo di Giorgia Meloni. L’obiettivo dichiarato è di svecchiare la macchina burocratica italiana, tradizionalmente nota per la sua farraginosità. A trasformarla dovrebbe essere la digitalizzazione in corso, come avviene anche in Europa. Con una differenza sostanziale però, che impedisce di essere contenti fino in fondo.
Il Psn italiano è affidato a quattro aziende – Tim, Leonardo, Cdp Equity e Sogei – che garantiscono la protezione dei dati immagazzinati, mentre le grandi aziende tech sono utilizzate solamente come fornitori. Amazon Web Service, Google Cloud, Azure e Oracle e via dicendo non possono gestire quei dati, come invece vorrebbe il Cloud Act varato nel 2018 dagli Stati Uniti che consente alle autorità americane di gestirli accedervi ovunque essi si trovino. In Italia, insomma, non può accadere quello che è successo in Germania giusto qualche settimana fa.
A novembre, Google ha infatti annunciato un investimento da 5,5 miliardi di euro con cui tra il 2026 e il 2029 verranno costruite infrastrutture nel Paese. Compresi il nuovo data center che dovrebbe sorgere a Dietzenbach, altri investimenti nel campus di Hanau e l’allargamento delle sedi di Berlino, Francoforte e Monaco. Un’iniezione, quella di Google, che contribuirà in media per oltre 1 miliardo di euro al Pil tedesco e a 9.000 posti di lavoro. L’esultanza del ministro delle Finanze, Lars Klingbeil, è comprensibile: “Gli investimenti multimiliardari di Google sono veri e propri investimenti a prova di futuro: nell’innovazione, nell’intelligenza artificiale e nella trasformazione climaticamente neutrale. Si tratta di investimenti per i posti di lavoro del futuro in Germania. È esattamente ciò di cui abbiamo bisogno in questo momento”, afferma promettendo che “oltre ai nostri investimenti pubblici, vogliamo mobilitare molti più investimenti privati. La Germania è una sede attraente per gli investitori di tutto il mondo. Siamo forti nella ricerca, forti nell’innovazione e disponiamo di lavoratori altamente qualificati. Per questo sono lieto che Google abbia scelto di investire così tanto in Germania”.
In Europa c’è quindi concordanza rispetto alla suggestione di una sovranità digitale comunitaria, come dimostra la dichiarazione di Berlino firmata la scorsa settimana. Ma coesistono anche più approcci alla questione. Quello tedesco, come visto, differisce da quello italiano. Per capire quale sia meglio, bisogna partire dalle necessità. Nell’Unione europea, ad esempio, servono circa 400 miliardi di euro di investimenti nel cloud entro la fine dei data center per costruire nuove infrastrutture (alias, data center). Soldi che devono ovviamente essere racimolati e che possono essere garantiti soprattutto dalle big tech statunitense.
Serve dunque un ripensamento, o meglio un passo indietro per compierne due avanti. A suggerirlo è anche l’ennesimo monito lanciato da Mario Draghi. Intervenendo alla cerimonia di apertura dell’anno accademico del Politecnico di Milano, l’ex presidente del Consiglio e della Banca Centrale Europea afferma che l’Ue è davanti al suo “momento della verità”, per cui è chiamata a un cambio di passo. Più precisamente, a una regolamentazione più flessibile che impedisca al gruppo dei 27 di rimanere fermo e perdere leadership internazionale. “Una politica efficace in condizioni di incertezza richiede adattabilità, cioè rivedere le ipotesi e adeguare rapidamente le regole man mano che emergono evidenze concrete sui rischi e i benefici. È qui che l’Europa si è inceppata”. E da qui deve ripartire, senza dare alcunché di scontato a priori.
















