Skip to main content

Quirinale, ecco pregi e difetti di tutti i nomi in campo

Il dibattito sull’elezione del nuovo presidente della Repubblica sta entrando nella fase clou. Manca ormai meno di una settimana al fatidico giorno delle votazioni. E quello che succederà da qui a giovedì prossimo non è dato ancora saperlo. La riffa dei nomi è fin troppo aperta perché sia da prendersi in considerazione qualcuno. Tanto più che bisogna aggiornare il catalogo ogni momento sulla base dell’ultima dichiarazione di questo o quel politico.

E’ più interessante invece riflettere sul profilo che le forze politiche sembrano volere per il Quirinale, in corrispondenza alla condivisione di alcuni valori comuni. Pd e Pdl, non a caso, continuano a ripetere che l’inquilino del Colle dovrà garantire tutti, avviando un processo che permetta di conseguire, presto e bene, una forma di “pacificazione nazionale”. In parole povere, il prossimo capo dello Stato dovrà prendersi l’onere di portare il Paese fuori dalle secche in cui si è arenato in vent’anni di contrapposizione ideologica, anche a costo di impiegare tutto il settennato per riuscirci.

I due punti di maggiore contrasto, che dividono costantemente la politica italiana, sono la questione giustizia e l’antiberlusconismo. Per questa ragione è fondamentale che il prescelto dia come minimo credenziali certe in queste due direzioni. Non può essere pertanto un forcaiolo o un “perseguitato dai giudici”, né può essere un pasdaran del moralismo anti berlusconiano o del berlusconismo integrale. In tal senso paiono esclusi subito molti possibili candidati che potrebbero essere buoni, ma non di garanzia, come, ad esempio, Romano Prodi e Pierluigi Bersani. Il primo perché polarizzatore della sola area di sinistra e il secondo perché simbolo politico di una linea ostinatamente chiusa alle larghe intese.

Al netto delle normali tattiche, febbrili in queste ore, esistono solo due ipotesi sul campo. La prima è quella lanciata da Fabrizio Cicchitto, che consiste nell’optare per il più eminente sostenitore della “linea giustizialista”, investendolo però del ruolo di sanatore dello scontro e magari perfino promotore di una riforma della Magistratura. La personalità in questione è Luciano Violante. La seconda prospettiva è, invece, quella sostenuta da Silvio Berlusconi, secondo cui non è tanto un problema di nomi quanto di assicurare un accordo di Governo. Tradotto in soldoni, non importa che il presidente sia Franco Marini, Giuliano Amato o Bersani stesso, purché sia assicurato l’essenziale, ossia l’abbinamento del Colle a una maggioranza politica che chiuda l’accanimento personale della giustizia. Su questo solco la figura più idonea, anche per intelligenza politica, è Massimo D’Alema, tra l’altro già presidente negli anni ‘90 della Commissione Bicamerale.

A questa doppia ipotesi si aggiungono altre questioni collaterali per nulla irrilevanti, interne soprattutto al Pd. Lo scalpitio di Matteo Renzi, escluso dai grandi elettori ma ritrovato dal partito per merito dello stesso D’Alema. E, cosa non meno rilevante, il malcontento dei cattolici del Pd che non accetterebbero un nuovo atto di emarginazione, rinunciando, ancora una volta, ad un cattolico al Quirinale.

Soltanto un tema, tuttavia, è realmente decisivo nel complesso susseguirsi delle trattative in corso: il valore politico e il peso specifico di una possibile intesa duratura tra Pd e Pdl. D’altronde, non sarebbe un compromesso storico e neanche un’eliminazione posticcia delle differenze che separano profondamente centrodestra e centrosinistra. Nessuno desidera fare, infatti, né un inciucio, né un accrocchio. L’auspicio è semmai che, innanzi al fallimento elettorale di Scelta Civica e all’emergere del grillismo, affiori una risposta politica compatta delle forze che concretamente rappresentano i due cuori e le due anime maggioritarie del Paese.

L’errore della prima Repubblica non è stato offrire agli elettori due alternative precise, ma immobilizzare il sistema identificando logica politica e logica di governo, due dimensioni che devono restare invece chiaramente distinte in democrazia. Una cosa è, infatti, andare dai cittadini a chiedere il consenso su un’idea dell’Italia, e in tal senso non sono tollerabili inciuci, altra cosa è pensare che una maggioranza di Governo debba escludere qualsiasi collaborazione. Quest’ultimo caso accade, difatti, solo quando c’è una guerra civile in atto. E chiudere la guerra civile italiana è l’obiettivo che tutti sembrano volere dal nuovo presidente della Repubblica.

×

Iscriviti alla newsletter