Lo aveva giurato nel 2016: elezioni. Lo aveva ripetuto nel 2017: elezioni. Niente di tutto questo. Solo tattica per tenere a freno – senza riuscirci – le opposizioni scese in piazza. Nel grande e dilaniato Paese che Joseph Conrad definì “cuore delle tenebre”, il despota Joseph Kabila, 47 anni, da diciassette abbarbicato al potere, sta provando anche stavolta ad eludere l’impegno che gli è stato finalmente strappato dalla Chiesa cattolica, dall’Onu e dall’Unione Africana.
Al voto il prossimo 23 dicembre per rimettere in moto una democrazia presto svanita e calpestata e tentare di riportare uno straccio d’ordine e di stabilità in una nazione spaventata e in ginocchio. Stuprata da una miriade di sanguinose guerre e dalla conseguente emergenza umanitaria, derubata dei proventi della vendita delle sue ingenti ricchezze minerarie, che vanno regolarmente a ingrossare le tasche della vorace “nomenklatura” legata al presidente autocrate e finiscono nelle mani delle multinazionali del settore l’un contro l’armate, una spregiudicata e immorale sfida in cui i cinesi stanno sopravanzando i concorrenti occidentali, i russi e la Turchia.
Kabila, che – al pari di quanto avviene in una dinastia monarchica – successe nel 2001 al padre assassinato dai seguaci dell’uomo che aveva deposto, sta sondando diverse strade pur di resistere nel fortino assediato di Kinshasa. Studia la possibilità di dare vita a una larga coalizione telecomandata da lui, che esprima un candidato-fantoccio pronto a governare (si fa per dire) sotto sua dettatura. Ma è una via che – nell’infida politica africana, adusa alle giravolte e ai tradimenti – presenta un non trascurabile margine di rischio. Per questo il furbo Joseph, dittatore a tutti gli effetti di un Paese verniciato da istituzioni democratiche in naftalina, è tentato dall’imboccare un percorso più diretto. Ha già rivoltato a suo piacimento la composizione della Corte Costituzionale, con l’intenzione di stravolgere la Carta abolendo la norma che impedisce – sarebbe il suo caso – un terzo mandato presidenziale consecutivo. A quel punto avrebbe via libera per correre ancora, ma si troverebbe di fronte un concorrente fortissimo e amato da buona parte del popolo congolese (malgrado una vita tutt’altro che limpida, anzi costellata di violenze), in procinto di rientrare in patria dopo un lunghissimo esilio.
È Jean-Pierre Bemba, 55 anni, un altro duro, leader incontrastato del Mlc (Movimento per la Liberazione del Congo), ex-vicepresidente e “signore della guerra” pilotato dall’Uganda nella seconda guerra panafricana (1998-2004), ancora bloccato dalla Corte Penale Internazionale pur dopo la recente assoluzione dalla responsabilità degli efferati crimini compiuti dai suoi soldati in Centroafrica a nome e per conto dei francesi, storicamente determinanti in quell’area. Stava già per salire sull’aereo che lo avrebbe riportato a Kinshasa, quando è stato raggiunto da una nuova incriminazione (di minore entità) emessa a suo carico dallo stesso tribunale. Confusione nella confusione, incertezza su incertezza. Potrà tornare l’invocato – e insieme temuto – Bemba in tempo per il voto? Ma le sorti del crudele Kabila vanno al di là di quello che – fino al 1960 – era stato il Congo belga. E sono inserite di diritto in un più ampio, e altrettanto aggrovigliato, scacchiere internazionale. Perché il rais, uno che – anche nel business – non esita a cambiare repentinamente alleanze a seconda dell’utilità del momento, negli ultimi anni ha stretto legami ravvicinati con Mosca e Pechino. E le potenze occidentali, gli infuriati Usa in testa, non hanno più alcun interesse a “perdonare” le sue malefatte e a tollerare il quadro di totale instabilità che ha creato in un Paese ricco e strategico ridotto a un inferno in terra, creando tutto intorno le premesse per un effetto-contagio. Per questo è sul tavolo dell’Onu e della Nato un piano militare del segretario di stato americano Mike Pompeo, approntato su diretto mandato di Donald Trump, per ripulire la Repubblica democratica del Congo dalla dittatura di Kabila, che sta terremotando l’intera e vasta regione dei Grandi Laghi.
Si tratterebbe di una guerra-lampo (Oid, “Operazione isolamento e distruzione”), coordinata da Belgio e Francia e condotta dall’esercito di quattro confinanti nazioni africane: Ruanda, Uganda, Angola e Congo Brazzaville. Un’invasione in piena regola, che – in una seconda fase – si estenderebbe all’Uganda per colpire a morte il violento regime paranazista e razzista nero di Pierre Nkurunziza, che starebbe per avviare un nuovo sterminio dei tutsi. Ma sul blitz – ideato per scattare nel corso di agosto – si addensano dubbi e interrogativi. E la Casa Bianca manifesta estrema cautela di fronte alla mancata risposta all’appello da parte del Sudafrica e al rilevante accordo commerciale da poco stipulato tra il Congo e lo Zimbabwe. Se questi due importanti stati si schierassero a difesa di Kabila, potrebbe deflagrare quella che diventerebbe la terza guerra panafricana, potenziale devastante mina per gli equilibri mondiali, visto che Mosca e Pechino sarebbero portati ad appoggiare la resistenza di Kinshasa, che rientra ormai nella loro sfera di potere. Scenari minacciosi, che sembrano indurre Washington a tenere – per ora – in un cassetto il progetto di invasione. Ma una decisa azione dissuasiva nei confronti del dittatore congolese dovrà pure essere messa in atto. Oggi non si sa come e quale.