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L’allarme ebola in Congo e la paura del contagio in Uganda e Ruanda

ebola

Troppo frettoloso e arruffone – troppo voglioso di esorcizzare il terribile incubo in quattro e quattrotto – il governo di Kinshasa. Meno di due settimane fa, per la verità non smentito dall’Oms, aveva trionfalisticamente dichiarato estinto il preoccupante focolaio di ebola che si era acceso ai primi di maggio e aveva provocato la morte di trentatré persone: cifra ufficiale, questa, probabilmente depotenziata ad arte. Secondo fonti giornalistiche locali, riprese da media americani, le vittime si sarebbero invece avvicinate al centinaio. Ma chi può confermare o negare con sicurezza un dato del genere in quell’inferno in terra in cui si è trasformata da un pezzo la Repubblica Democratica del Congo?

Tant’è che, da sei-sette giorni, lo scenario tranquillizzante che era stato dipinto si è miseramente sgretolato. Il temibile virus è tornato, più virulento e a fatica controllabile, nella stessa area settentrionale già colpita, il Nord Kivu, regione dilaniata dalla guerra, anzi da un groviglio inestricabile di guerre. Come spesso accade – dal lontano ’97 almeno – nell’enorme e ricchissima (ma depredata) ex-colonia belga, due terzi della superficie dell’Europa occidentale, quasi l’India, ottantadue milioni di anime perse, che – tutti i santi giorni – la sopravvivenza se la debbono conquistare fortunosamente. Destreggiandosi come possono in una sanguinosa giostra di insidie e violenza. Perché l’esercito regolare del dispotico Joseph Kabila – figlio d’arte, presidente per diritto ereditario, che nega da tre anni le elezioni – combatte contro gli oppositori convertiti alla guerriglia nelle province diamantifere del Kasai e del Katanga e contro i bagliori del terrore jihadista di Afd, affiliata ai tagliagole stupratori di Boko Haram. Ma, parallelamente al conflitto centrale, divampa una miriade di crudeli guerricciole etniche, villaggio per villaggio, mescolate al disperato tentativo di arraffare le risorse minerarie e quelle idriche. Mercenari che sparano nel mucchio. Spesso foraggiati da voraci potenze estere (nessuna esente da colpe) e da alcuni stati confinanti, tutti sfrenatamente a caccia di oro e di altri metalli preziosi. In vent’anni di questo andazzo sette milioni di morti ammazzati. Sette e mezzo di sfollati da ricollocare. Tredici milioni (quattro e mezzo bambini) in condizioni sub-umane, che necessitano di protezione sanitaria e assistenza.

E allora si capisce bene perché lo spaventoso morbo ha ripreso ad attecchire in una delle zone – il Nord Kivu, appunto – più devastate dagli scontri, più disagiate nelle comunicazioni, zeppa di posti inaccessibili e di tendopoli affollate all’ inverosimile, igiene zero. La valutazione che l’Oms dà della situazione è molto severa, ma evita accuratamente il catastrofismo. Non si tratterebbe, per fortuna, di una riedizione della strage del 2013 (11.300 vittime accertate tra Liberia, Sierra Leone e Guinea e un terrore mondiale). Stavolta esiste l’arma di un vaccino, seppure ancora sperimentale, e ci sono nuovi mezzi per perimetrare con discrete speranze di successo il contagio. È un’epidemia “regionale”, che non dovrebbe allargarsi più di tanto, ma i vicinissimi Uganda e Ruanda – poco preparati all’eventuale emergenza – sono sotto minaccia. Perché comunque, considerato il ristretto arco di tempo, i numeri appaiono inquietanti. Dal primo al 5 agosto, quarantatre casi sospetti di febbre emorragica, trentacinque morti, quindici sicuramente ascrivibili all’ebola. Il rischio è alto, non tale – si ritiene (o si spera?) – da giustificare un panico planetario, come avvenne a macchia d’olio cinque anni orsono. Sempre che venga detta tutta la verità sul “male oscuro”. E, su questo, dubitare è legittimo.



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