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La leva? Obbligatorio valorizzare le forze armate. L’opinione del generale Bertolini

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La proposta del ministro dell’Interno circa un parziale ritorno al servizio militare di leva, la vecchia coscrizione obbligatoria, da affiancare come complemento all’ormai imprescindibile e preponderante componente professionale delle Forze Armate, si è attirata il facile e scontato sarcasmo delle opposizioni. Dal canto suo, il ministro della Difesa l’ha considerata una proposta “romantica” ed inattuabile, definendo non più necessarie Forze Armate cospicue come quelle di un tempo.

Se il dibattito si esaurisse qui, si tratterebbe di un’occasione persa, perché una seria riflessione sull’argomento sarebbe opportuna, a tre lustri da quando gli ultimi soldati di leva lasciarono le nostre caserme in balia delle erbacce infestanti, per valutare pregi e difetti di una trasformazione che ha inciso profondamente sulle nostre Forze Armate e sulla percezione delle stesse da parte dell’opinione pubblica. Tale riflessione potrebbe anche essere intesa come un omaggio ai dimenticati protagonisti della vittoria nella Prima Guerra Mondiale di cent’anni fa esatti, quando i 5 milioni di coscritti che la giovanissima Italia scagliò contro le armate austro-ungariche completarono a un prezzo elevatissimo la nostra unificazione nazionale, creando l’Italia indipendente che è giunta fino ai nostri giorni, pur con non pochi acciacchi. Ma, come si sente, non sono questi i temi capaci di commuovere chi pare al contrario affannosamente preso soprattutto dal desiderio di sbarazzarsi dei fastidi e delle responsabilità che questa indipendenza comporta. Peccato.

Volendo fare una superficiale istantanea della situazione di oggi, gettando una rapida luce sui suoi pregi e difetti, non c’è dubbio che ora disponiamo di unità molto efficienti, grazie a militari di truppa in ferma prolungata o addirittura in servizio permanente capaci di utilizzare sistemi d’arma e di comando e controllo molto più sofisticati di quelli di un tempo. Molti si muovono con disinvoltura nelle difficili procedure operative della Nato, utilizzando con padronanza la lingua inglese e gli acronimi in uso nell’Alleanza che fanno impazzire i rappresentanti dei media.

Peraltro, la consistenza delle unità è drasticamente diminuita e le stesse sono state ridotte drammaticamente di numero. In sostanza, la più cospicua tra le Forze Armate, l‘Esercito, verrà in pochi anni ad assommare poco meno di 90.000 soldati ed analoghi tagli riguarderanno Marina ed Aeronautica; solo i Carabinieri aumenteranno di numero, superando i 120.000 uomini, forti dell’attenzione non disinteressata di cui le Forze dell’Ordine hanno sempre goduto in Italia. Una cosa è, inoltre, certa: con la fine della leva non esistono più riserve nella società civile, richiamabili per rinforzare le unità operative in vita in caso di necessità; non è certamente utile a tal fine la cosiddetta “riserva selezionata”, idonea tutt’al più per rendere disponibile qualche laureato in giornalismo o scienze politiche per rinforzare temporaneamente qualche Comando in operazioni all’estero. Poca roba, insomma.

Inoltre, un aspetto non trascurabile è rappresentato dal progressivo invecchiamento del personale di truppa in servizio permanente, che crea situazioni inaccettabili soprattutto nell’Esercito, dove l’energia fisica dei soldati continua a rappresentare la risorsa principale a cui attingere.

Quanto all’hardware, forse con la scusa che le nuove Forze Armate non hanno più bisogno dei ritmi addestrativi del passato quando le classi alla leva si alternavano a ritmo mensile, tesi paradossale e assolutamente falsa, si sono ridotte all’osso le aree addestrative e vi sono stati imposti vincoli di utilizzazione che con la leva non sarebbero mai stati accettati; nei magazzini, si sono affievolite le scorte di materiali e mezzi mentre il patrimonio infrastrutturale è in larga misura abbandonato senza manutenzione. Solo la Marina continua a godere di una certa attenzione grazie agli interessi della cantieristica nazionale impegnata nel rinnovo della flotta, mentre i parcheggi dell’Esercito sono pieni di carri e di mezzi inefficienti per scarsa manutenzione.

Ma come si è verificata tale situazione? Innanzitutto c’è da osservare che la fine della leva non è stata improvvisa ma, al contrario, è stata perseguita con un processo durato decenni, conclusosi con uno dei pochi provvedimenti bi o tri-partisan della nostra politica, unanimemente concorde nello sbarazzarsi di quello che riteneva, a mio avviso affrettatamente, un anacronismo. Sotto quest’aspetto, si agitavano considerazioni di carattere politico, ma anche questioni di carattere tecnico-operativo da parte degli addetti ai lavori.

Non è mia intenzione affrontare nel dettaglio quest’aspetto, ma è indubbio che mentre i partiti di destra speravano in una professionalizzazione delle Forze Armate che irrobustisse un’istituzione sostanzialmente percepita quale “conservatrice”, quelli di sinistra puntavano al contrario ad una riduzione quantitativa delle stesse, da decenni considerate impermeabili a quella sindacalizzazione che già erano riusciti ad imporre alla Polizia di Stato, smilitarizzata negli anni ’70; è triste ed allarmante constatare che questo tema sta tornando alla ribalta. Quanto al centro, vedeva confermata nell’abolizione della leva l’escatologia laica di cui si sentiva portatore e che avrebbe dovuto condurre a una fine della storia preconizzata dai teorici della democrazia quale destino obbligatorio per tutti; per la soddisfazione, soprattutto, di quel cattolicesimo post-conciliare che era a disagio con le liturgie civili della marzialità esibita, indispensabili per chi deve saper esercitare la violenza legittima delle armi per affermare la libertà e l’indipendenza della nazione.

Da parte loro, gli Stati Maggiori risentivano in parte di queste pulsioni extra-militari, ma erano soprattutto concentrati sulla necessità di adeguarsi agli impegni nelle operazioni che eufemisticamente dovevano sempre essere definite “di pace”. In essi, si pensava che il ricorso classico alla massa, al fuoco e alla manovra sarebbe stato sostituito in larga misura dalla tecnologia, da parte di pochi “professionisti” capaci di ottenere risultati un tempo impensabili anche per grandi masse di coscritti; e senza sporcarsi troppo le mani. Insomma, l’illusione che la storia fosse effettivamente finita giustificava, per questi, la totale rivisitazione di uno strumento che era passato indenne attraverso secoli di evoluzione, inalterato nei suoi principi costitutivi.

Si è trattato di un processo che ha interessato tutti i principali strumenti militari dei Paesi occidentali che però hanno posto molta più attenzione del nostro a non buttare il bambino con l’acqua sporca. In questo contesto, quest’ultima era indubbiamente rappresentata dalle ingenti spese connesse con Forze Armate cospicue e concepite sostanzialmente quali consumatori di preziose risorse, unicamente al fine di fare danni se necessario a chi ormai nell’ambito della Comunità Internazionale non era più politicamente corretto considerare avversario o, peggio, nemico. Per contro, il bambino era rappresentato dalla disponibilità di ingenti masse di giovani che, tornati alle loro case, avevano comunque una buona infarinatura militare che gli consentiva di essere riutilizzati, o “richiamati”, se interessi vitali del Paese lo avessero richiesto. Insomma, in una specie di appello al “tutti a casa” ci si rassegnò a tagli drastici alle nostre unità, ridotte nel numero e nella loro consistenza e, per di più, private di “riserve” nella società civile.

Ma il pupo era anche di un’altra natura, e qui si innesta il condivisibile auspicio del ministro dell’Interno relativo ad un ripensamento del nostro modello di Difesa che ci faccia, almeno in minima parte, tornare all’antico. Le Forze Armate, infatti, dall’affermazione dello Stato italiano unitario hanno anche svolto un ruolo educativo nei confronti della gioventù del quale indubbiamente si sente la mancanza ai nostri giorni. Nelle caserme, i soldati venivano abituati a una percezione di se stessi quali titolari di doveri nei confronti della comunità nazionale ai quali né le nostre famiglie né, a maggior ragione, la scuola post-’68 li sanno più preparare. Da qui, l’esplosione della cultura dei diritti individuali, in opposizione ai doveri, che non cedono il passo all’interesse generale neppure se si tratta dei più assurdi e, spesso, aberranti.

In fin dei conti, la difficoltà che ogni governo nazionale si trova sistematicamente ad affrontare, di qualsiasi orientamento politico si tratti, è quella di pretendere condivisione su obiettivi vitali comuni, in uno scenario internazionale sempre più complesso, nel quale è la logica della competizione tra Stati che è tornata a farsi largo, anche sulle sponde del nostro democraticissimo e tollerantissimo continente europeo. Non può non amareggiare la constatazione che addirittura l’indipendenza nazionale – un tempo unica base comune e condivisa che faceva fremere all’unisono Peppone e Don Camillo alle note del “Piave” – sia diventata terreno di scontro e motivo di divisione. Ovvio che chi ad essa fosse tenuto a giurare fedeltà, come i najoni di un tempo, sarebbe nei suoi confronti più sensibile, se non altro per una nostalgica reminiscenza dei propri vent’anni in uniforme.

Da quanto sopra, risulta abbastanza evidente che il problema riguarda soprattutto l’Esercito, quella che dovrebbe continuare ad essere la Forza Armata di massa e di riferimento e che, al contrario, sta attraversando una crisi profonda. È una crisi sottesa da molti malintesi, primo fra tutti quello secondo il quale il soldato classico del passato non troverebbe più alcuna giustificazione in un mondo nel quale esistono mezzi tecnologici capaci di sostituirsi all’impegno fisico del combattente.

Ma si tratta, appunto, di un malinteso, in quanto la tecnologia che incide in misura preponderante nelle operazioni della Marina e dell’Aeronautica, non è che una sfaccettatura, seppur importante, delle operazioni terrestri che si basano ancora sulla disponibilità di unità cospicue e formate da soldati preparati e forti fisicamente. Ed è quello che abbiamo anche noi stessi toccato con mano in Afghanistan, dove la limitata disponibilità di unità di fanteria ha spesso causato grandi difficoltà a esercitare il controllo di molte delle delicate aree poste sotto la nostra responsabilità. Immaginiamo quindi cosa succederebbe se si rendesse necessario un impiego in uno degli scenari più turbolenti tra quelli nel nostro intorno immediato.

Gioca, inoltre, un ruolo non indifferente in questo quadro una specie di condizionamento ideologico per il quale le Forze Armate quali strumenti operativi destinati alla funzione bellica non sarebbero più proponibili. Da qui, lo sforzo per rassicurare la parte meno favorevole dell’opinione pubblica definendole dual-use, mediante un uso dell’inglese, come spesso sperimentato anche in altri settori, che fa sempre un certo effetto, conferendo dignità di verità assoluta anche ad affermazioni opinabili.

Nel caso specifico, in particolare, si vorrebbe con esso far passare l’idea che i nostri soldati di professione, che in operazioni utilizziamo in contesti difficili per i quali è necessario un addestramento continuo in patria, una volta non impegnati nelle loro mansioni elettive possono benissimo sostituirsi alle Forze dell’Ordine per “piantonare” qualche stazione della metropolitana o per ripulire qualche strada delle nostre città al posto degli addetti dell’Agenzia dei rifiuti. Sembrerebbe, in effetti, una soluzione razionale se non comportasse la rinuncia a quello che è il compito fondamentale al quale i soldati di tutto il mondo si devono applicare in guarnigione: l’addestramento, ridotto così ad una funzione da riservare ai “ritagli di tempo”.

Per tornare al punto, ritengo che una seppur limitata disponibilità di militari di leva – anche ridotta a sei mesi per un numero minimo di reggimenti di fanteria – potrebbe essere utilmente impiegata in tali ruoli, per i quali la preparazione dei “professionisti” delle nostre unità operative è eccessiva (sanno fare molto di più di quanto viene loro chiesto, infatti). In questo modo, si potrebbe contemperare l’esigenza di supportare le nostre Forze di Polizia o la Protezione Civile in patria con personale di medio livello addestrativo, ma comunque adeguato a quello che viene loro richiesto, lasciando a quelle più operative la possibilità di prepararsi per gli impegni più significativi.

Ed è qui che casca l’asino, purtroppo. Infatti, è difficile sperare che da un “contratto di governo” nel quale alla funzione Difesa sono state riservate poche righe di affermazioni generiche – in assoluta continuità col disinteresse per le Forze Armate, e soprattutto per l’Esercito, dei governi del passato – possa derivare un’attenzione per tematiche così lontane dai problemi che agitano il dibattito politico interno. Queste, al contrario, richiederebbero una conoscenza approfondita dello strumento militare da parte della classe politica che invece si conferma ancora di nicchia, per “amatori”. Pare quindi difficile sperare in un’attenzione per le Forze Armate che, ad esempio, non le faccia sistematicamente confondere con le Forze dell’Ordine, certamente molto importanti ma decisamente meno esigenti in termini di risorse e profondamente diverse per compiti e costituzione; o che faccia mettere a fuoco le esigenze della componente corazzata e di artiglieria terrestre, ridotta in condizioni assolutamente inaccettabili per un paese esposto come l’Italia in un teatro nel quale si cumulano tensioni crescenti e dove si concentrano le attenzioni dei principali attori internazionali.

Un’ultima considerazione forse di qualche rilevanza: in questa discussione sul servizio di leva, spesso si dimentica che l’ultimo governo ha istituito una specie di coscrizione con il “servizio civile”, di qualunque cosa si tratti, proponendo un concorrente alla realtà militare del quale non si sentiva il bisogno (anche nelle frequenti calamità naturali sono sempre gli uomini con le stellette a tirare la carretta, quando c’è da fare seriamente).

Peraltro, con questa novità esibita con orgoglio ai Fori Imperiali il 2 giugno, si è dimostrato con le intenzioni che l’apporto part-time dei giovani può essere apprezzato anche ai nostri giorni, contraddicendo buona parte delle obiezioni alla proposta del ministro Salvini. Inoltre, non si vuole ammettere che tale realizzazione ha avuto tra le conseguenze forse non casuali una caduta verticale delle vocazioni per le Forze Armate, anche in sistema al venir meno del passaggio obbligatorio in esse per potersi arruolare successivamente in quelle di Polizia. Ma questa è un’altra storia.

Insomma, è certamente necessario cogliere l’opportunità assicurata dalla proposta del ministro dell’Interno, comunque la si voglia considerare, per mettere a fuoco i problemi delle Forze Armate, che sono molto seri e che rischiano di intaccarne funzionalità e ragion d’essere. In merito a quest’ultimo aspetto, non è forse inutile osservare che esse sono per costruzione finalizzate proprio alla salvaguardia di quell’indipendenza, o sovranità, che è centrale nel dibattito odierno. E questo non è un dettaglio di poco conto per gettare una luce sulle motivazioni di un dibattito inaspettato ma doveroso.


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