Gaetano Gifuni ci ha lasciati. Egli era, prima di tutto, un caro amico ma, per me, rappresentava proprio la quintessenza dell’Uomo di Stato.
La riservatezza come natura profonda, stile profondo dell’uomo, ma non per mantenere questo o quel segreto, quanto per tutelare la sacralità dello Stato, il suo prestigio, il suo legittimo potere.
Da questo punto di vista, Gaetano Gifuni aveva una sua profonda convinzione, che definirei quasi filosofica: lo Stato, le istituzioni, hanno certo diritto a chiedere sacrifici agli individui, soprattutto a quelli più potenti e fortunati, ma lo devono fare solo se esse difendono la libertà reale del popolo.
Vi è uno scambio di equivalenti all’origine dello Stato moderno: esso protegge i cittadini e li aiuta a migliorarsi, da tutti i punti di vista, mentre i cittadini, di converso, sostengono le Istituzioni che li rappresentano.
Non vi era, in Gaetano, separazione netta tra comunità del popolo e istituzioni. Non vi è cesura antropologica tra Stato e comunità originaria. Gaetano, lettore attento del giusnaturalismo, non vedeva crisi violente all’origine del politico, ma una necessità quasi naturale del passaggio tra comunità e Stato.
Una teorica che ricordava, per certi aspetti, le ultime opere di Gianfranco Miglio. Certo, la sua raffinata cultura politologica e giuridica conosceva bene le teologie materialistiche dello “stato di natura” o del bellum omnium contra omnes ma per lui, erede del laicismo, equilibratissimo, delle nostre classi dirigenti unitarie nate nel sud, lo Stato era nato direttamente dall’insieme dei cittadini e sorgeva per difenderli, nella libertà, da tutto ciò che si inserisse tra le masse e le istituzioni.
Filosofo e giurista di alto livello, sapeva rendere equilibrato e efficace ogni scontro politico. Non era solo un uomo di teoria, ma la sua azione è stata una sintesi perfetta di teoria e pratica.
Gaetano ha avuto l’immensa fortuna di poter essere, nella sua altissima posizione, ciò che voleva essere. E questo non per una bonaria capacità di appianare i contrasti, ma per una profonda conoscenza di quelle che Schmitt aveva chiamato “le categorie del politico”.
Che è fondamento del diritto pubblico e insieme deriva dalle sue norme. Fu anche ministro per i Rapporti con il Parlamento, nel 1987, con il sesto governo Fanfani.
Fu, quello, un governo tra i primissimi che aprì ai cosiddetti “tecnici”, in una fase in cui era difficile, data l’altissimo tasso di concorrenza politica tra i partiti, creare governi stabili e efficaci.
La eccessiva concorrenza partitica era, per Gaetano, l’effetto di un cattivo funzionamento tra governo e opposizione, oltre che l’effetto visibile di un cattivo legame tra mondo economico e rappresentanza politica.
Era un meccanismo, la presenza di tecnici e politici insieme nei governi, che si sarebbe affermato in seguito, mentre la crisi del sistema politico italiano si radicalizzava, fino alla crisi che direi finale degli anni ’90.
Una crisi che Gifuni interpretava, quando ne discutevamo insieme, come un mancato adattamento dell’Italia ai meccanismi successivi alla guerra fredda. Il che implicava anche scelte economiche nuove, ma senza dimenticare quel particolare nesso tra Stato e Mercato che ci aveva fatto crescere, nel secondo dopoguerra, fino a raggiungere e superare l’economia britannica.
Stato e mercato stanno insieme armonicamente, mi diceva Gaetano, come cittadini e istituzioni, quando c’è libertà e equilibrio tra i poteri. Gaetano era quindi un grand commis d’État di quella specie particolare, che ormai non ritroviamo più: quelli che avevano vinto l’”Oscar della Moneta”, con Donato Menichella, altro pugliese come Gifuni.
O che avevano raddoppiato il Pil in pochi anni, mantenendo un livello accettabile di concorrenza esterna e senza pressioni inflazionistiche sulla lira. Era quella la stagione che ha fondato la nostra vera identità socio-economica; ed è quella la formula che dovremo inevitabilmente rielaborare per uscire dal declino.
Era però anche l’idea di un grande Presidente della Repubblica, amico e maestro mio come di Gaetano: Francesco Cossiga, che molto apprezzava Gifuni e sempre prendeva decisamente sul serio i suoi suggerimenti.
Ma fu la segreteria della presidenza del Senato, dal 1975 al 1987 che rappresentò, probabilmente, il momento in cui Gifuni iniziò a rifulgere come meritava.
Fu segretario, impassibile, riservato, efficiente e indispensabile di Fanfani, di Spagnolli, colui che Gemelli aveva scelto come amministratore della Cattolica, di Tommaso Morlino, inventore delle Regioni e, anche lui, intellettuale del sud.
Di formazione cattolica, Morlino, ma Gifuni, di formazione risorgimentale e laica, era un assoluto difensore non solo della libertà della Chiesa e della sua assoluta autonomia formativa e politica, ma anche della sua funzione essenziale per la “direzione delle coscienze”. Anche di quelle dei non-credenti.
Sapeva, Gaetano, che i valori e il bene sono unici e universali, e che, senza la Chiesa, l’Italia e il suo popolo non esisterebbero nemmeno. Vero è il Ben, per dirla con il Foscolo dei Sepolcri. Altro che il laicismo da quattro soldi che oggi vediamo ripetere ad ogni cantone!
Qui, c’era evidentemente l’eredità della tradizione azionista, laica ma con caratteristiche proprie, che il sud aveva portato allo Stato: penso all’amico Maccanico, ma prima a Salvemini, ma anche, ancora prima, Nitti.
Gifuni ha poi diretto la presidenza del Senato con Vittorino Colombo, altro manager e intellettuale cattolico che molto e bene operò come ministro per il commercio estero, soprattutto con la Cina.
Ma il rapporto più stabile e profondo Gaetano lo ebbe, lo ripeto, con Cossiga. Fu in quella fase che si cementò la nostra amicizia, intorno al centro intellettuale e politico rappresentato dal nostro Presidente.
Cossiga stimava profondamente Gifuni. Gli chiedeva idee che andavano ben oltre la funzione precipua di Gaetano nelle istituzioni. Ne apprezzava inoltre la eccezionale cultura, la memoria giuridica portentosa; e Cossiga era anche, quando voleva, un arcigno professore di diritto anche con i suoi collaboratori.
Ma Gaetano la pensava proprio come il nostro Presidente: era certo della ineluttabilità della crisi politica (ed economica) italiana e ne sapeva decrittare gli aspetti internazionali, che sono qui essenziali.
Pensava, Gifuni, proprio come Cossiga, che ai nuovi equilibri post-guerra fredda dovesse coincidere una nuova architettura del sistema politico italiano.
Più rappresentativa ancora di quella che aveva caratterizzato la “Prima” Repubblica, ma più elastica e sicura nel trattare le questioni internazionali, strategiche, geo-economiche.
Negli ultimi tempi, Gaetano ripensava a quella fase in cui egli aveva sostenuto, suggerito, costruito talvolta i governi “tecnici” degli anni ’90. “Chiamatemi Ciampi!” aveva gridato Scalfaro un certo mattino. “Gli devo conferire il mandato di presidente del Consiglio!”.
Era un modo, quello dei tecnici, di seguire la “linea” di Cossiga, per controllare la trasformazione del nostro sistema economico nel mondo globale successivo alla caduta del Muro di Berlino.
Con Oscar Luigi Scalfaro, Gifuni aveva appunto organizzato il governo Ciampi nel 1992-1993. In quel frangente, mi era stato offerto il ministero dell’Agricoltura, in un esecutivo in cui, da Ciampi ed altri, avevo avuto attestati di stima professionale e morale proprio per la mia condotta nella fase delle grandi liberalizzazioni.
Mi rifiutai, ma fu proprio Gaetano a dirmi che Scalfaro, accettando il mio rifiuto a essere membro del gabinetto Ciampi (di cui conservo attestati straordinari e un affettuoso ricordo) mi aveva nominato Cavaliere del Lavoro.
Con Gifuni ho parlato spesso, anche negli ultimi tempi. Sapevo che non era in buone condizioni di salute, ma era per me quasi necessario ascoltarlo, discuterci.
Le mie ultime impressioni furono che Gaetano, che non ha mai perso la speranza, nel senso della virtù politica evocata da Tito Livio, pensasse a una nuova riforma costituzionale, un nuovo patto tra eletti ed elettori che sanasse la grande ferita che oggi verifichiamo ogni giorno tra governanti e governati, una terminologia che Gifuni sapeva essere tipica di Salvemini.
Senza un nuovo patto e senza la vera riforma degli enti territoriali, con un riequilibrio verso l’esecutivo, reso più forte e stabile, non saremmo usciti da questa nostra attuale crisi di sistema. Che non aveva, per lui, un rilievo di tipo partitico, ma gli sembrava, in gran parte, il risultato di una classe politica che non sa decrittare i segnali che vengono dall’estero, dalla politica e dall’economia mondiale.
Ecco, questo era il suo timore: che l’Italia, ancora una volta, si rinchiudesse in un immaginario hortus conclusus, dalla quale sarebbe uscita sconfitta come accade dopo una guerra.
Non era ottimista, Gifuni, negli ultimi tempi. Lo ricordo con la frase di Churchill, il prezzo della grandezza è la responsabilità.
Grande servitore dello Stato, grande statista silenzioso a sostegno di figure che, oggi, ci sembrano impossibili, vista la piccolezza di ciò che ci circonda.