Cina e Australia, lo scontro continua. Il governo di Canberra ha annunciato questo giovedì che l’azienda di telefonia cinese Huawei e il gigante delle telecomunicazioni Zte non potranno più vendere tecnologia 5G in Australia. La decisione è stata motivata per ragioni di sicurezza. Il governo federale ha infatti sottolineato il rischio che può comportare per l’intelligence nazionale il coinvolgimento nell’installazione della rete di quinta generazione di aziende legate a doppio filo a governi stranieri. Nel comunicato l’esecutivo australiano spiega il pericolo di un “coinvolgimento di venditori probabilmente soggetti a indicazioni extragiudiziali da parte di un governo straniero che confliggano con la legge australiana”.
Le stesse due aziende del dragone erano finite pochi giorni fa nel mirino del National Defence Authorization act con cui il presidente americano Donald Trump ha sbloccato 716 miliardi di dollari per la Difesa. In quel caso l’amministrazione Usa, suscitando l’ira del governo cinese, ha aumentato considerevolmente i controlli del governo sulle agenzie federali con l’inserimento di disposizioni che vietano loro di firmare contratti con Zte e Huawei.
Stesso risultato, diversi percorsi. La scure del governo australiano sui giganti hi-tech cinesi giunge infatti al termine di una lunga escalation inziata sul finire del 2017. Tutto è partito con lo scandalo che ha visto coinvolto il senatore Labor Sam Dastyari, accusato dal primo ministro australiano Malcolm Turnbull (nella foto) in persona di aver ottenuto finanziamenti dal Partito Comunista Cinese (Pcc) negli anni di attività politica. La campagna ad personam si è presto trasformata in una crociata contro la presenza cinese in Australia. Nel dicembre del 2017 il parlamento ha approvato una legge che vieta le donazioni di governi stranieri, cui sono seguiti altri provvedimenti legislativi, come una legge contro l’influenza straniera sulla politica australiana approvata dal Senato a giugno che è stata ribattezzata dalle opposizioni “legge anticinese”. I toni accusatori di Turnbull, che ritiene Pechino responsabile di “tentativi senza precedenti e sempre più sofisticati per influenzare il processo politico”, hanno innescato una dura reazione da parte dei cinesi, che per mesi hanno risposto al fuoco sulle colonne dei giornali di partito definendo “irresponsabile”, “assurdo”, “una disgrazia” la linea di Canberra.
Non si discostano tanto le reazioni dei cinesi all’inaspettato blocco imposto sul 5G a Huawei e Zte. L’azienda telefonica di Shenzen condanna il provvedimento, “un resultato estremamente deludente per i nostri consumatori”. Le fa eco il governo tramite il portavoce del ministero degli Esteri Lu Kang, che invita l’esecutivo di Turnbull ad “abbandonare pregudizi politici e a offrire un ambiente corretto e competitivo per le aziende cinesi”. C’è invece chi dall’estero applaude da mesi la linea del primo ministro e mette in guardia dal business cinese. Steve Bannon, ex capo stratega di Trump, da sempre convinto avversario del dragone, non è impegnato solo in Europa. “L’Australia è in prima linea nel contesto geopolitico del nostro tempo” – ha detto un mese fa in un’intervista al The Sydney Morning Herald riferendosi alle nuove normative per limitare le ingerenze cinesi– “quel che sta succedendo in Australia è più importante di quanto accade negli Stati Uniti e nel resto del mondo”.
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