28 agosto 1963. A chi parlava 55 anni fa Martin Luther King? Nel suo discorso più famoso, quello in cui raccontò di aver sognato che un giorno i suoi quattro figli non sarebbero stati giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere, il reverendo statunitense si rivolse davvero ai suoi contemporanei. La discriminazione razziale era realtà evidente, dura. Ma lui seppe dire a quella folla sterminata che bisognava tornare a casa con un messaggio: “un giorno i figli degli schiavi e degli schiavisti sapranno sedere insieme alla tavola della fratellanza”. Di più, ringraziò i tantissimi bianchi presenti all’incontro oceanico davanti al Lincoln Memorial che ha cambiato il corso della storia americana anche grazie alle sue parole.
Il punto centrato da Martin Luther King, contro l’odio razziale e per la fratellanza, quanto parla all’America del primatismo bianco? Ma non parla solo all’America, parla anche a noi, spettatori di prima fila in quanto italiani del dramma italiano della nave Diciotti e dell’incontro a Milano, proprio nell’anniversario del discorso di Martin Luther King, tra il leader di un nostro partito di governo, Matteo Salvini, e il leader ungherese Viktor Orban, quello che ha negato il cibo ai migranti per dissuaderne altri a intraprendere il viaggio migratorio. Tornano dunque a essere ore importanti quelle del 28 agosto, da scelta tra pace e guerra, e così il ritorno dei corvi non deve sorprendere, vista la centralità della scelta che le religioni faranno davanti a questo bivio.
“O impareremo a vivere insieme come fratelli e sorelle o periremo insieme come degli stolti”. Queste parole del reverendo Martin Luther King, insieme alla sua constatazione che “abbiamo imparato a volare come gli uccelli, a nuotare come i pesci, ma non abbiamo imparato l’arte di vivere come fratelli” sono un programma politico, culturale, sociale, ecclesiale. Con queste parole Martin Luther King ha infatti definito un programma di politica interna e internazionale. Programma di politica tra Stati vicini come gli Stati Uniti e il Messico, o l’Italia, la Francia e la Libia, che non sanno più capire quale sia il loro interesse nazionale e confondendolo con qualche commessa per questa o quell’azienda e basta e non vedendolo in una vera cooperazione per lo sviluppo tra vicini finiscono invasi dalla paura dell’altro e del fossato civile ed economico che li divide. La paura, indotta dagli errori della globalizzazione, invece che a costruire ponti, economici, di fratellanza e infrastrutturali ha indotto a costruire muri, allargando il risentimento reciproco e quindi lo spazio occupato dai cantori dell’odio, dagli estremisti, dai terroristi del nuovo nichilismo che dopo aver islamizzato il radicalismo ora tenta di cristianizzare il razzismo. Cosa vuol dire altrimenti cingere la Polonia con un milione di rosari per chiuderla all’immigrazione musulmana o usare il rosario durante un comizio basato sul no all’ingresso degli stranieri? Lo sapeva benissimo che il rischio era questo, Martin Luther King. E lo disse 55 anni fa: “Cerchiamo di non soddisfare la nostra sete bevendo alla coppa dell’odio e del risentimento. […] perché molti dei nostri fratelli bianchi, come prova la presenza qui oggi, sono giunti a capire che il loro destino è legato con il nostro destino, e sono giunti a capire che la loro libertà è inestricabilmente legata con la nostra libertà”.
Il programma di realismo internazionale annunciato da Martin Luther King ha avuto in queste ore un evidente riconoscimento nella decisione albanese: i profughi della Diciotti, a larga maggioranza cristiani, accolti in un paese a larga maggioranza musulmano. Chi costruisce muri non ne capisce il valore magari simbolico per tradurre che “o impareremo a vivere insieme come fratelli e sorelle o periremo insieme come degli stolti”, perché questa frase spiega che la miglior protezione è il buon vicinato. Lo spiega anche alle nostre società impietrite, impaurite, tutte lanciate alla ricerca del nemico esterno, quello che serve sempre per non vedere i nostri problemi di crescita, di solidarietà, di coesione sociale. Estirpando dalle nostre società il principio del mutuo soccorso, questa xenofobia diffusa, agitata, paurosa e impaurita, ci condanna alla guerra tra poveri per non vedere i conflitti reali, quelli del crimine organizzato, degli investimenti infrastrutturali, del buon vicinato che morendo nel Mediterraneo e quindi in Europa non può che sparire anche nelle nostre società.
Cinquantacinque anni dopo il grande discorso di Martin Luther King è di tutta evidenza che Papa Francesco è l’uomo che oggi fa vivere in tutte le culture il sogno del reverendo americano. Tutto questo pontificato sa comunicare a tutte le culture che il vivere insieme è la grande sfida del mondo contemporaneo. Vivere insieme vuol dire innanzitutto non vivere da soli. Vivere come una persona dunque, non come un individuo. Chi sceglie di vivere in un recinto per escludere gli altri si illude di vivere da solo. Per questo è incredibile che chi rifiuta i naufraghi della nave Diciotti pensando davvero al povero italiano non capisca che senza solidarietà culturale anche quel povero prima o poi sarà abbandonato. Ci penserà prima l’edonismo dell’io sovrano ad abbandonarlo, poi il calcolo dell’economia liberalista.
Ecco perché, a mio avviso, è decisivo ricordare che in queste ore Bergoglio in Irlanda ha ricordato che la famiglia, vissuta come palestra del vivere insieme e non come scimitarra da brandire contro gli altri, le altre unioni, le altre relazionalità, è il nucleo fondante di un’umanità solidale, non di un’umanità tribale, un’umanità fondata sul riconoscimento e l’incontro con l’altro, come fecero Adamo ed Eva, che non hanno eretto un muro tra le loro diversità, sbocco vero al quale finisce inevitabilmente per condurre ogni sovranismo identitario e nazionalista. Perché il rifiuto del mutuo soccorso conduce solo al mutuo abbandono. Nel vivere insieme fondato dalla famiglia, che ha come suo presupposto l’incontro, si coglie il carattere fondante della cultura del mutuo soccorso: all’interno della comunità locale, tra le culture che in essa si incontrano e quindi tra i popoli.
Cinquantacinque anni dopo Martin Luther King parla anche a noi come ai naufraghi della nave Diciotti, per spiegar loro l’enormità del compito che li attende anche ora che intorno alla loro tragedia si spengono le luci delle ribalta: aiutarci a riscoprire il valore insostituibile del vivere insieme.