La questione dell’unità del centrodestra è antica, almeno quanto può esserlo un tema in discussione dal 1994, anno in cui Silvio Berlusconi scese in campo, unificando il fronte moderato contro le sinistre. Lo sviluppo è rimasto, tuttavia, congelato fino al 2011, in virtù dell’indiscussa leadership del presidente di Forza Italia, sebbene un forte dibattito, con tanto di spaccature e confluenze, si verificò pure precedentemente in occasione della nascita del Popolo delle Libertà, dopo il celebre Discorso del Predellino, tenuto da Berlusconi a Milano il 18 novembre 2007.
Oggi il tema è molto meno stravagante di un tempo, anche perché già il centrodestra si è presentato insieme alle elezioni del 4 marzo, malgrado sia però reso complicato, e non poco, dall’attuale partecipazione della Lega al governo gialloverde con il Movimento 5 Stelle. È giustificato chiedersi, in definitiva, se abbia ancora senso l’alleanza storica di conservatori e liberali in Italia, fronte attualmente costituito da tutte e tre le forze politiche di centrodestra: Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia.
I detrattori di ogni parte sono scettici per due ragioni di fondo: l’incompatibilità delle diverse idee politiche e lo strano connubio che sembra talvolta fare andare la Lega in direzione dei grillini in modo più organico rispetto all’attuale coabitazione necessaria per avere una maggioranza.
Sciogliamo subito le riserve da ogni equivoco: se un domani il centrodestra potrà essere unito, lo sarà soltanto in opposizione frontale non soltanto al Pd e alle sinistre ma anche e soprattutto a M5S. I grillini sono mossi da una visione politica che un tempo si sarebbe detta “rivoluzionaria”, e Berlusconi ha ragione nel dire che il loro estremismo, nonostante abbia convergenze conservatrici generiche e parziali, è più radicale ancora rispetto a quello della sinistra estrema.
Il centrodestra unito, ad avviso di chi scrive, è perciò possibile, anzi addirittura indispensabile, a condizione che non abbia niente in comune con esperienze che sono nate e restano ancorate ad una pulsione anti politica ribellista e refrattaria alla moderazione, oltre che, ovviamente, con visioni socialdemocratiche ostili al mercato, che resistono comunque alla liquefazione.
Ebbene, sorge subito, a onore del vero, una seconda grande obiezione contingente al ritorno di un progetto unitario. Non soltanto Forza Italia sta riorganizzando le fila del suo movimento dall’opposizione, ma la Lega è in espansione in virtù di una politica, quella di Matteo Salvini, egemonica, autonoma e assai radicale.
Allora, tutto considerato, non è meglio lasciare perdere? Io credo di no.
Le ragioni a favore sono complesse, ma possono essere riassunte in due motivazioni essenziali: una di ordine teorico e l’altra di ordine pratico. Dal punto di vista concreto, infatti, la crescita della Lega, unita alle difficoltà costituite dalla condanna che la Magistratura ha inflitto al movimento per la passata gestione amministrativa, non danno al partito da solo nessuna garanzia di essere maggioranza assoluta, né oggi né domani. Anche se la Lega superasse il 30 %, gli altri avrebbero comunque il 70 % da suddividere per loro stessi, intralciandogli il percorso. Inoltre, una volta attuate le iniziative contrattuali di questo esecutivo gialloverde, per completare il suo programma elettorale, scritto di comune accordo con Berlusconi e Giorgia Meloni, Salvini non potrà certo fare affidamento alla generosità autolesionista dei 5 Stelle, i quali, per loro conto, hanno giustamente altri progetti in mente. Dunque, malgrado le difficoltà evidenti, la prospettiva di un centrodestra unito ritorna in ogni caso e si presenterà sempre sul tavolo di lavoro.
Qui subentra la seconda e decisiva considerazione, riguardante gli aspetti teorici e strategici della prospettiva unitaria. Nessuna delle tre forze politiche moderate è in grado di esaurire da sola la visione complessiva del centrodestra. Mentre tutte e tre insieme possono farlo bene in virtù esattamente della loro differenza specifica. Un centrodestra moderno e di governo si regge su una premessa assoluta, la sua alternativa alle altre forze politiche, e su un obiettivo organico, vale a dire la confluenza di tre interessi distinti, in Italia rappresentati appunto da FI, Lega e FdI.
La demarcazione è l’opposizione ad ogni volontà politica di opprimere il Paese con politiche fiscali e assistenziali ultra stataliste, come il reddito di cittadinanza, oppure di sostenere, sulla base di giustificazioni internazionali generiche e progressiste, interessi reputati superiori e più avanzati a svantaggio della sovranità nazionale ed economica dell’Italia. Ecco perché un progetto di centrodestra, sebbene eterogeneo, non può in alcun modo, se non eccezionalmente, immaginare una combinazione di se stesso con 5 Stelle, Pd e sinistre.
L’unità del centrodestra si regge, dunque, negativamente su questo barrage, ma si fonda positivamente sul modo armonico e costruttivo di concepire l’alternativa a iperstatalismo ed ipereuropeismo. In sostanza, il centrodestra deve avere tre obiettivi: uno nazionale, uno economico e uno di ordine pubblico.
Il primo richiede di lavorare su una valorizzazione forte della nazione come identità comunitaria particolare, sensibilità propria di FdI; il secondo su un sostegno deciso al capitalismo e all’economia italiana, con spirito d’impresa e attenzione per lavoro e risparmi, sensibilità propria di FI; e il terzo sul rafforzamento della sicurezza, dei confini e della legalità, sensibilità propria della Lega. In questo consiste, in buona sostanza, la proposta conservatrice e liberale di un centrodestra di governo.
D’altronde, per avere un consenso crescente anche Salvini dovrà immaginare il suo futuro con il centrodestra unito: infatti, la lotta all’immigrazione clandestina e alla criminalità ha senso soltanto in un quadro culturale e nazionale di riferimento, in vista di una crescita economica della produzione, del lavoro e del capitalismo italiano.
Tanto più che senza la convergenza di questi tre piani in un unico programma, è difficile per ciascun protagonista da solo mietere consensi, la politica estera risulta debole e contraddittoria e nessuno può trovare le coperture sufficienti a rendere veramente possibile le riforme necessarie.