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Il debito pubblico, il contratto e Bruxelles. Il rebus di Giovanni Tria

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Dopo la svolta, che nelle elezioni del 4 marzo, ha innescato il grande cambiamento, c’è un tema che dovrebbe interessare tutte le forze politiche. E che, invece, è stato sostanzialmente rimosso. Occultato in un tran tran, tanto di governo, quanto di opposizione, che non lascia ben sperare. E che rischia di essere l’incubatrice di una prossima crisi. Inevitabilmente più virulenta.

Il tema è facile da declinare. Le ultime elezioni hanno marcato il rifiuto di una vecchia politica e delle classi dirigenti, collocate sia al governo che all’opposizione, che l’avevano in qualche modo sostenuta o avallata. Crollano, infatti, il Pd, Forza Italia, ed i vari cespugli di contorno sia di destra che di sinistra. Emergono, soprattutto, i 5 stelle e la Lega di Salvini. Gli oppositori più duri e più puri del passato regime.

Quel rifiuto era delle politiche, ancor prima che dei partiti che le avevano praticate. Si spiega così il voto quasi plebiscitario a favore dei 5 stelle, nonostante la loro più che evidente inesperienza politica ed i disastri della sindaca Raggi, nella gestione della Capitale. Voto indubbiamente favorito dalla scelta di un programma elettorale tanto accattivante, soprattutto per gli elettori del Mezzogiorno, quanto difficilmente realizzabile, nel rispetto dei tradizionali vincoli della finanza pubblica italiana.

Discorso, in parte analogo, per il centro-destra. La centralità della Flat Tax altro non era che l’esatto pendant, almeno dal punto di vista dei costi, del reddito di cittadinanza. Poi c’era il resto: lotta all’immigrazione clandestina, maggiore sicurezza per i cittadini, riforma/abolizione della Legge Fornero. E via dicendo. Temi che ritornano ed assumono valenza specifica nel momento in cui si tratta di impostare la legge di bilancio.

I principali elementi dei due programmi elettorali – quelli del centro destra e dei 5 stelle – erano quindi confluiti nel cosiddetto contratto per il governo del cambiamento. Obiettivo politico: soddisfare le esigenze di un Nord produttivo, fornendo assistenza ad un Mezzogiorno, da troppo tempo abbandonato a sé stesso. E per questo impoverito ed incattivito. Quindi una sommatoria, più che la ricerca di un minimo comune denominatore, in grado di dare sostegno ad una linea di politica economica di carattere unitario.

Ma anche l’unica intesa possibile, a causa delle genesi che aveva segnato il cambiamento. Non tanto sinistra contro destra – anche se questi riferimenti non erano assenti nei rispettivi programmi elettorali – ma il “nuovo” contro il “vecchio”. Una diversa classe dirigente, più intimamente legata al popolo, contro l’establishment, colpevole di aver operato in danno ai “cittadini”. Schema, per la verità, non nuovo nella storia italiana, più recente. Basti pensare alla crisi del ‘92 che portò alla fine delle Prima Repubblica.

La conseguenza di questo generale sommovimento dovrebbe comportare l’esigenza di individuare una politica economica che sia in sintonia con il voto elettorale. Onde evitare possibili corti circuiti, altrimenti inevitabili. Ne derivano alcuni corollari dai quali è difficile prescindere. Il primo è che non si può continuare come se nulla fosse successo. Non si può, in altre parole, porre al centro del dibattito economico il solo contenimento del debito pubblico. Prospettiva che non solo vanificherebbe completamente il programma di governo. Ma si tradurrebbe nel negare i risultati stessi delle ultime elezioni.

Ma non si può nemmeno partire dal solo “contratto”, e comportarsi come se i vincoli esterni – non solo l’Europa, ma i mercati – non esistessero. Alla fine, sarebbero “queste potenze estranee”, per riprendere una bella espressione di Marx, a vanificarne la realizzazione. Gettando il Paese in un caos economico – finanziario senza precedenti. Come ha insegnato la sfortunata parabola di Alexīs Tsipras, nella sua Grecia. Ed allora, la chiave per risolvere il rebus non resta essere che quella del gradualismo: il disperato tentativo di Giovanni Tria, di proiettare quegli impegni nell’arco dell’intera legislatura.

Basterà? Solo ad una condizione. Che nel frattempo si cerchi di individuare il paradigma più corretto per fare uscire l’Italia dalla situazione di precarietà in cui da troppo tempo è costretta. Non è pensabile, infatti, che ogni anno si debba contrattare con Bruxelles i margini di una flessibilità aggiuntiva. Ovviamente utili per affrontare le mille emergenze nazionali. Ma assolutamente distruttivi rispetto alle esigenze di programmazione di più lungo periodo. Le cui proposte sono le uniche in grado di tranquillizzare i mercati ed evitare quel continuo stillicidio che zavorra la borsa e alimenta il sabba degli spread sui titoli di Stato.

Nella ricerca di questo equilibrio di più lungo periodo, dovrebbero essere coinvolte sia le forze di governo, che quelle di opposizione. Queste ultime, in particolare, dovrebbero capire che il ritorno alle pratiche del bel mondo antico è un’ipotesi senza fondamento. Il “nuovo“, come all’indomani del ‘92, ha conquistato la scena, solo perché un precedente lungo ciclo si era esaurito. E sperare di risuscitarlo, ora come allora, con la semplice respirazione bocca a bocca, è fare male a sé stessi, ma soprattutto all’Italia.


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