Dopo il meeting dello scorso aprile il presidente iraniano Rouhani, il premier Erdogan della Turchia, il presidente russo Vladimir Putin, si sono incontrati di nuovo a Teheran (e a Tabriz) il 6-7 settembre scorsi, nella ormai consueta cornice dei colloqui di Astana. Il fine specifico di queste ultime trattative era quello di una normalizzazione, nel lungo periodo, della intera situazione siriana, per promuovere inoltre l’eradicazione del terrorismo internazionale, la stabilizzazione del processo politico infra-siriano e, infine, per creare le necessarie condizioni per un ritorno delle displaced persons e dei rifugiati all’estero provenienti dalla Siria. Le riunioni di pace per la guerra in Siria, che dura da circa sette anni, sono ormai innumerevoli. Tutto nasce, in questo caso, dal prevedibile fallimento dei “sei punti” proposti da Kofi Annan nel 2012, con l’autorizzazione della Lega Araba e dell’Onu. Il primo criterio proposto da Annan era “l’operazione per la creazione di un processo politico inclusivo per il popolo siriano”; e qui citiamo il testo, qualunque cosa ciò voglia dire. Poi, Annan chiedeva la cessazione di tutte le operazioni militari al fine di “difendere i civili” e di “stabilizzare il Paese”. E se, per difendere i civili, occorressero talvolta le armi? A questo punto, l’ex-segretario generale dell’Onu chiedeva al solo governo siriano di cessare immediatamente ogni movimento di truppe, lo stop all’uso dell’artiglieria pesante (e quelle leggera?) e, infine, delle “concentrazioni militari intorno ai maggiori centri urbani”.
Altra frase ambigua. Nessun cenno però si fa nei “punti” di Annan alle operazioni militari dei “ribelli”, ovvero della immane raccolta di almeno 56 gruppi, tra quelli apertamente jihadisti e non, che formano, anche oggi, la grande rete a maglie larghe delle “Forze Democratiche della Siria”. Ma l’Inviato dell’Onu che ha ipotizzato i “six-points” avrebbe dovuto cercare, come dice, soprattutto l’accordo dell’”opposizione”; e quindi simultaneamente dei jihadisti, dei curdi e dell’Isis e ancora dei se altri gruppi della “guerra santa” collegati direttamente al Califfato. Ma non sappiamo come, ovviamente, avrebbe dovuto fare per raggiungere una “sostenuta cessazione della violenza armata”. Dando cosa in cambio? Con quale limite operativo? Mistero dell’idealismo astratto, quello delle “alcinesche seduzioni” crociane, anche nel concretissimo campo della politica estera. Poi, il sostegno umanitario in tutte le zone di combattimento, raggiungendole non si sa come, magari disarmati come angioletti, poi ancora il rilascio delle detained persons (1,3 milioni) e di quelle displaced, (oggi 6,1 milioni) non si capisce ancora qui come, pur garantendo loro la sicurezza del ritorno sempre senza armi, mi raccomando; e ancora il libero movimento dei giornalisti, che spesso sono agenti mascherati e ancora, infine, il rispetto della “libertà di associazione” e il diritto alla dimostrazione pacifica delle proprie idee. Questo testo, adatto piuttosto alle Chiese Presbiteriane ma non a chi abbia letto i classici della politica, fu alla base delle risoluzioni dell’Onu che chiedevano durissime sanzioni contro il regime siriano, solo contro il regime siriano, naturalmente, nel periodo tra il 2011 e il 2012, sanzioni idealistiche che furono, ragionevolmente, bloccate da Russia e Cina in Consiglio di Sicurezza.
È a questo punto, nell’aprile 2012, che Kofi Annan rinuncia definitivamente e viene quindi smantellato l’Unsmis, la U.n. Supervision Mission in Syria. Dopo il fallimento di Annan, l’amministrazione Obama afferma poi che Assad non può rimanere, “ragionevolmente”, il presidente della Siria. È meglio quindi il Daesh-Isis? Non lo sapremo mai, ma sappiamo benissimo, invece, quanto l’Arabia Saudita e altri Paesi sunniti e non sostenevano il califfato di Al-Baghdadi. Putin ha parlato, a suo tempo, di ben 14 Paesi che utilizzavano i servigi del vecchio Isis ma, per esempio Al-Adnani, allora portavoce del califfato, rivelò, in un discorso del maggio 2014, che “le nostre forze e quelle di Al Qa’eda avevano avuto l’ordine di non attaccare le linee di collegamento tra l’Iran e il Libano”, senza tralasciare le molte prove delle vaste infiltrazioni delle forze siriane proprio di Assad dentro il jihad califfale e delle operazioni turche, saudite, qatarine all’interno della vasta scelta tra le organizzazioni jihadiste contrarie ad Assad. A quel punto, sia Damasco che gli altri attori internazionali, compresi alcuni gruppi della resistenza di matrice jihadista, partecipano ai Geneva Talks, ma senza riuscire a formare un governo di transizione con tutte le parti in lotta. Che era proprio l’obiettivo di quelle trattative ginevrine. Inizia allora la fase detta di Geneva II, dal gennaio 2014, per creare le condizioni di nuovi talks più efficaci. E nient’altro. A Ginevra II non partecipavano però né i curdi né le varie etichette del jihad. Nemmeno Assad vi partecipa direttamente, visto il warning di Obama sulla sua stessa permanenza al potere. Nascono, a quel punto, le operazioni dell’Isis tra Iraq e Siria e gli Usa creano, contemporaneamente, una coalizione “globale” di ben 79 Stati per colpire, soprattutto, il califfato.
Il resto è noto: la Federazione Russa interviene direttamente nella guerra siriana; e quindi nasce, sempre in ambito onusiano, ma nel novembre del 2015, l’International Syria Support Group, con venti Stati e organizzazioni internazionali, tra i quali l’Iran, per organizzare una bozza di accordo da portare alla futura Conferenza di Vienna. Viene in mente qui l’immortale battuta di Churchill, secondo la quale “gli ambasciatori devono stare zitti in almeno sei lingue diverse”. La proposta finale del Gruppo viene incamerata nella Risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu n. 2254, con una “Road Map per il Processo di Pace in Siria e la definizione di una Timetable per ulteriori Talks”. Poi, vengono previsti dalla 2254 sei mesi, e non di più, di trattative tra il governo baathista e l’opposizione, senza ulteriori specifiche su quest’ultima; e quindi indirettamente accettando al tavolo quel Califfato che ben 79 nazioni dovrebbero combattere insieme agli Usa; e poi ulteriori elezioni politiche (con quali partiti o liste?) entro quegli stessi sei mesi. L’Arabia Saudita si offre poi, nel dicembre 2015, di organizzare da sola uno High Negotiations Committee, con gran parte dei gruppi jihadisti allora operativi in Siria e anche in Russia, oltre che con i maggiori Paesi presenti in quel quadrante. Erano 33, i membri del Hnc, tra i quali 9 membri della “Coalizione Nazionale delle Forze della Rivoluzione e dell’Opposizione Siriane”, altri del Consiglio Nazionale Curdo, che dureranno ben poco, poi 5 membri del non più conosciuto “Consiglio Nazionale per il Coordinamento Democratico”, una accolita di ben 13 partiti della sinistra siriana, con altri che poi spariranno grazie ai Servizi di Assad e dopo una fortunosa riunione in Cina.
Lo Hnc dichiarava peraltro di volere il “pluralismo religioso e politico” e, per questo, viene ospitato spesso dal governo di Londra. La questione primaria, in questo caso, sono i curdi siriani, che sono esclusi dalle trattative grazie alla sola pressione turca. Poi, arriva perfino Ginevra III, subito abortita a causa delle iniziative militari russe e iraniane sul territorio siriano. Infine apre i battenti una nuova Ginevra IV, che ospita altri talks tra il governo di Bashar el Assad e il già citato High Negotiations Commitee, ma hanno inizio anche le Trattative ad Astana, una serie indiretta di Talks tra il regime baathista di Damasco e la Russia, poi in seguito l’Iran e la Turchia, che fanno comunque da sponsor. Con una selezione di jihadisti, che parteciperanno alla trattative in Kazakhistan con inconsueta attenzione. Il capo dell’Hnc definisce poi, nella prima riunione nella capitale del Kazakhistan, il governo siriano come una “entità terrorista”, e si tratta del leader, allora, del gruppo jihadista Jaish al Islam. Astana, pur tra offese inimmaginabili, riesce a raggiungere una qualche tregua tra le parti combattenti. Infatti, alla fine dell’ottobre 2017, vengono stabilite, tra gli stati e il jihad siriano, ben quattro zone di de-escalation del conflitto. Si tratta della città di Idlib e delle sue periferie, di cui oggi parliamo, oltre alle provincie di Latakia e Aleppo, una enclave nell’area a nord di Homs, ma ancora nelle periferie della città, poi di Ghouta Est e di alcuni quartieri di Deraa e di Quneitra. Quasi tutte aree, a parte proprio Idlib, oggi già conquistate stabilmente dal governo di Damasco. Si tratta quindi di aree definite tramite accordi, soprattutto bilaterali, tra i soli russi e i gruppi jihadisti operanti nell’area. Mosca sigla infatti allora un accordo con il cosiddetto “Fronte del Sud”, per tenere fuori gli iraniani da Deraa, mentre i russi sostituiscono con la loro polizia cecena e del Daghestan i miliziani dei Paesi alleati.
Poi, Mosca ha sancito inoltre un accordo specifico con il gruppo jihadista Jaish al Tawhid, al Cairo, un accordo che sappiamo molto oneroso per le casse russe. L’Iran, nel frattempo, opera per rafforzare la propria linea di collegamento tra Teheran, le aree militari sciite dell’Iraq e, alla fine, il Libano. È il progetto primario di Teheran in Siria, l’idea di una chiusura strategica finale di Israele, che si troverebbe una difesa ben più solida di quella siriana, oggi, nelle alture del Golan e al confine del fiume Litani con il Libano. È quindi solamente la Russia che, oggi, gioca il suo ruolo di grande mediatore per tutta la Siria, dopo aver vinto, de facto, sul campo. Cosa hanno quindi raggiunto i tre governi nell’ultima riunione di Teheran, che fa parte, comunque, del “processo di Astana”? Per l’Iran, c’è l’indubbio successo di far parte della coalizione vincente, in Siria, con Turchia e Russia; una relazione sommamente utile, proprio quando Usa e Arabia Saudita fanno di tutto per emarginare Teheran dal quadrante internazionale. Poi, la Repubblica Islamica dell’Iran vuole far parte del grande, ricchissimo, programma di ricostruzione della Siria, oltre a garantirsi, in questo modo, la raggiunta presenza sul terreno. In effetti, vi erano state varie e contraddittorie notizie sulla prossima pressione militare Usa per ridurre unicamente la presenza iraniana in Siria. Gli Usa, oggi, tenteranno di organizzare una guerriglia di disturbo, per far rimanere oltre il limite le forze russe, iraniane e siriane sul terreno, far aumentare le spese militari di Mosca, Teheran e Damasco e, infine, creare la destabilizzazione periferica del nuovo stato baathista degli Assad. Con o senza la collaborazione di vecchi e nuovi gruppi jihadisti, in relazione comunque con l’Arabia Saudita. Che vorrebbe disturbare l’Iran per far diminuire la pressione sciita sui ribelli Houthy dello Yemen. Poi, Teheran è stata accortissima a fornire al governo di Ankara un sostegno significativo e costante proprio durante e dopo la repressione, da parte di Erdogan, del golpe dell’agosto 2016, la fase di maggiore debolezza del sistema turco, molto sottile e attento, un sistema di “Stato profondo” costruito intorno al partito erdoganiano Akp e alla distruzione sunnita, da parte quindi del regime del Raìs di Ankara, della precedente setta iniziatico-massonico-kemalista dell’Ergenekon, nell’apile del 2011.
Ogni tensione, quindi, monetaria, daziaria o politica, tra gli Usa di Trump e la Turchia, secondo esercito della Nato, è musica per le orecchie sciite di Teheran. Altro elemento da non trascurare, sono i buoni e nuovi rapporti economici, tramite l’impegno tripartito in Siria, tra Russia, Turchia e Iran, rapporti essenziali per creare una sorta di “economia di sostituzione” durante le sanzioni antiiraniane degli Usa e di alcuni Paesi europei. Soprattutto nel sistema del petrolio di Teheran, ma anche nel settore bancario. Poi, ancora, Erdogan vuole un solido accordo militare con Teheran per un approccio mirato su Idlib. Il Mit, il Servizio turco, eliminerà, nei programmi di Erdogan, la rete di Al Qa’eda a Idlib, mentre lascerà intatta l’opposizione sunnita, un favore ad Assad ma, soprattutto, a Teheran. Che non si può certo permettere la distruzione dei suoi rapporti con la maggioranza sunnita in Siria, che occupa proprio i territori delle sue prossime reti che uniscono l’Iran, l’Iraq e il Libano. Proprio mentre la Turchia deteneva due cittadini Usa ed era sottoposta ad un “lavaggio” monetario tramite le operazioni estero su estero sulla sua Lira e le nuove tariffe Usa sull’alluminio e l’acciaio; allora Erdogan giocava tutte le sue carte antiamericane sul successo delle trattative di Astana, per recuperare ad Est il potere che era ormai interdetto ad Ovest. Per Assad, e i suoi alleati russi, l’unica via per chiudere la guerra è quella di un’azione efficace e, soprattutto, rapida, a Idlib. Che è, a maggioranza, organizzata tutt’ora da Hayat Tahrir Al Sham, la fazione siriana di Al Qa’eda.
Gli Usa sono del tutto contrari alle operazioni finali su Idlib. Lo vedremo in seguito. Mosca vuole però attaccare Idlib, per evitare di tenere una sacca, al confine con la Turchia, di jihadisti che, ormai, si venderebbero subito al miglior offerente, occidentale o sunnita che fosse. Inoltre, la liberazione di Idlib, città curda, sarebbe un ottimo biglietto da visita per trattare con le tre principali Forze Armate curde, che già collaborano attivamente con il regime di Bashar el Assad. La Turchia vuole allora convincere la Russia ad accettare una sua nuova influenza nell’area, per espugnare prima le basi terroristiche della città e poi proteggere gli abitanti. Ma Mosca vuole invece mantenere il completo comando sul processo di eliminazione del terrorismo jihadista in Siria, che è e rimane la base necessaria del prossimo jihad nelle repubbliche islamiche della Russia meridionale. Per questo, Mosca ha aumentato significativamente la presenza marittima presso le coste siriane, Poi, la Siria accetterà presto un notevole sostegno da Russia, Cina, Iran, tutti i Paesi che saranno in cima alle possibilità di investimento per l’affare del secolo: la ricostruzione integrale delle città e delle infrastrutture siriane, dopo una guerra sanguinosa e feroce. Affare dal quale saranno esclusi i Paesi che hanno accettato un diktat ambiguo, ingenuo e inconsistente.