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La sfida libica per il governo italiano. L’analisi del generale Bertolini

L’imprevista offensiva della Settima Brigata a Tripoli ha posto nelle ultime settimane una seria minaccia a Fayez al Serraj, il presidente del governo di accordo nazionale (Gna) appoggiato dall’Onu e dall’Italia. Se l’instabilità a cui ha dato la stura non si esaurirà velocemente, trascinerà la Tripolitania in un giro di violenze difficile da controllare, coinvolgendo le Katibe di Misurata fedeli al Gna ma legate al tempo stesso ai Fratelli musulmani, ostili a loro volta alle milizie tripoline.

Un bel guazzabuglio, quindi, che potrebbe vanificare i tentativi italiani di raggiungere un accordo con le autorità di Tripoli per il contenimento dell’immigrazione e la sicurezza dei nostri rifornimenti di idrocarburi. Sono state, infatti, numerose le iniziative in tal senso, a partire da quelle del ministro dell’Interno del precedente governo, Marco Minniti, protagonista con molti mugugni della sua parte politica di trattative per ridurre il flusso migratorio e finalizzate a rinforzare le capacità di controllo dei confini meridionali libici. Ma anche il nuovo esecutivo ha dimostrato attenzione per l’ex Jamairjia, incoraggiato dalla sintonia tra Donald Trump e Giuseppe Conte a mettere il naso in affari libici nei quali Emmanuel Macron la fa da padrone. Ed è proprio con la Francia che si evidenzia una divaricazione, con Parigi impegnata a da tempo a promuovere elezioni entro dicembre che incoronino il suo uomo forte, il generale Khalifa Haftar, mentre Roma frena puntando su una conferenza internazionale in Italia che rafforzi al Serraj.

Ovvio che la nuova situazione sul campo privilegi il primo, soldato di mestiere con un’indubbia forza militare, a scapito del secondo, un politico circondato tutt’al più di unità per la propria protezione, senza però particolari capacità di proiezione al di fuori della capitale. Paradossalmente, quindi, il possibile venir meno delle condizioni di sicurezza per le elezioni volute da Parigi avvantaggerebbe proprio chi le sostiene, Haftar, capace di far valere la sua forza militare o anche solo di sfruttare la debolezza del suo competitore, senza passare attraverso una roulette elettorale sempre difficile in un Paese diviso come la Libia. Il nuovo governo italiano si era riaffacciato nel Paese a giugno, con una visita a Tripoli di Matteo Salvini impegnato, come prima di lui Minniti, in una trattativa strana per il capo di un dicastero addetto agli affari interni, ma confermando con la presenza del vice premier di maggiore visibilità l’importanza dell’evento. Nell’occasione, aveva incassato l’apprezzamento per la fermezza dimostrata nella gestione dell’immigrazione e nei confronti delle Ong che di essa si occupano, ma non l’apertura di hotspot nel Paese (eufemismo mimetico inventato in passato dall’Europa per convincerci ad aprire campi profughi in Italia). A luglio, è stata la volta dell’altro vice premier, Luigi Di Maio in Egitto, con una visita incentrata sulle pmi, che potrebbe servire ad archiviare definitivamente il lungo congelamento col Cairo dovuto all’affare Regeni, che ci aveva resi ancor più marginali nei rapporti con Haftar in Cirenaica.

E che i rapporti con Haftar siano indispensabili se si vuol venire a capo del problema libico è ora più palese che mai, anche se può infastidire i più intransigenti tra gli onusiani nostrani. Ma tutto questo non basterà senza un piano complessivo per la stabilizzazione in Libia, che prescinda dal problema migratorio e che serva a mettere in sella una leadership credibile per governare nel lungo periodo. Si tratta, però, di un’azione che richiede conoscenza, previsione, libertà di manovra, credibilità internazionale e tempo, tutte risorse che solo una politica estera al riparo dall’andamento del borsino politico interno può assicurare. Se con la Libia la situazione si fa sempre più complicata, anche coi nostri “alleati e amici” europei non c’è da scherzare, impegnati come sono a lasciarci l’onere del cosiddetto accoglimento. Ne è stata una prova il deludente incontro a Vienna tra i ministri della Difesa, dove Elisabetta Trenta ha inutilmente proposto di modificare l’operazione Eunavformed “Sofia” prevedendo lo sbarco dei migranti recuperati dalle navi militari anche in porti esteri.

In effetti, però, Sofia non ha mai avuto il compito di recuperare migranti e la proposta non avrebbe avuto grande impatto se non da un punto di vista simbolico. In ogni caso, il segnale politico rimane chiaro: l’Europa non ci sente e continuerà ad “aiutarci” come ha fatto fino ad ora, lasciandoci cioè soli. È quindi sostanzialmente vero, come dicono con malcelato compiacimento le opposizioni, che l’Italia è isolata in Europa anche se è indubbio che, a meno di ipocriti strabismi, nei fatti lo era anche prima. Non ci resta, quindi, che sperare in qualche miglioramento della situazione complessiva in Libia, lavorando attivamente per questo risultato senza limitarci reattivamente ad affrontarne le conseguenze migratorie. Si tratta, però, di un’azione di ampio respiro, difficile, che deve esprimere anche una maggiore attenzione e rispetto per il convitato di pietra di tutte queste attività: le nostre Forze armate, strumento insostituibile di credibilità internazionale e di politica estera. Anche perché le crisi non si esauriscono nel fenomeno migratorio dalla Libia; e la Siria è sempre lì.


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