È il caso di dirlo: ormai siamo di fronte a una Steve Bannon mania. L’ex capo stratega della Casa Bianca continua a mietere consensi nel Vecchio Continente. E pensare che il suo doveva essere un prepensionamento, dopo che Donald Trump, il Tycoon cui Bannon ha dato un apporto vitale per diventare presidente degli Stati Uniti, lo ha congedato con disonore dalla Casa Bianca. Complice Fire and Fury, il libro (contestatissimo) di Michael Wolff che ha raccolto pettegolezzi e malignerie (vere e presunte) contro il presidente fra i suoi più fedeli colonnelli. La cacciata dall’Eden si è invece trasformata in una rinascita dal sapore biblico. L’ex eminenza grigia del presidente Usa è la nuova star del sovranismo europeo. È il segno che i tempi sono davvero cambiati. Fino a pochi anni fa i partiti europei di estrema destra facevano dell’avversione agli Stati Uniti d’America una bandiera identitaria.
Oggi le categorie di destra e sinistra sono prodotti d’antiquariato e i sovranisti affidano la loro crociata anti-europea (e pro-russa) a un ex marinaio americano che solcava il Pacifico su un cacciabombardiere in cerca di sottomarini sovietici con Ronald Reagan nel cuore (per non citare il master ad Harvard e i trascorsi a Goldman Sachs). Perfino quel che rimane della destra italiana, notoriamente poco avvezza a idolatrare uno yankee, si è fidata di Bannon. L’adesione di Fratelli d’Italia al nuovo progetto politico dello stratega americano in vista delle europee, The Movement, è stata confermata da Giorgia Meloni in persona, che per l’occasione lo ha invitato come ospite d’onore al festival Atreju. Adesso il cerchio è davvero chiuso. O almeno così sembra.
I FORFAIT DI SVEZIA E GERMANIA..
Le adesioni al Movement di Bannon arrivano da tutta Europa. La ciliegina sulla torta è Matteo Salvini, che a inizio settembre si è fatto riprendere in una foto con il guru sovranista e Mischaël Modrikamen, co-fondatore e leader del partito di estrema destra belga People’s Party. La Lega c’è, e farà da pivot per la formazione. Salvini è il candidato naturale alla leadership, la figura più adatta per costruire un ponte fra il Cremlino e una parte dell’amministrazione Trump. Le felpe blu guideranno l’assalto al “Partito di Davos”, espressione con cui Bannon inquadra l’élite finanziaria e politica europea. Assieme a loro c’è Marine Le Pen con il suo Rassemblement National (il marito Louis Aliot ha confermato l’adesione ufficiale). Seguono i fiamminghi del Vlaams Belang e quel che resta dei Brexiteers di Nigel Farage. Tentenna Geert Wilders, leader e fondatore del Partito per la Libertà (Pvv) olandese. Ospite al Forum Ambrosetti di Cernobbio, sorrideva alle domande dei cronisti con lo sguardo di chi ha già deciso: “Qualsiasi iniziativa venga da Bannon è molto ben accetta”. Più di così. Il trionfo europeo di Bannon però è ancora incompleto. Restano dei nei che rischiano di azzoppare la marcia trionfale verso Bruxelles.
I Democratici svedesi, reduci da un exploit elettorale che li ha fatti balzare al 17,6%, non sembrano ricambiare le esternazioni di amore che Bannon continua a mandare a Stoccolma, né si sono espressi su una loro adesione a The Movement. C’è poi il nodo tedesco. Alternative Für Deutschland (Afd), partito di estrema destra che alle urne nel 2017 ha strappato il 12,64% dei consensi, non vuole sentir parlare di Bannon. È un deficit non da poco per il progetto bannoniano: il partito di estrema destra del Paese che più di tutti nell’immaginario collettivo sovranista incarna il partito di Davos (soprattutto nei volti pro-austerity di Wolfgang Schaüble e Angela Merkel) dà forfait ai nastri di partenza. “Non credo sia il caso di aderire a movimenti esterni, abbiamo fatto la nostra campagna elettorale e siamo un partito con dinamiche proprie” – chiosa ai microfoni di Formiche.net Martin Rothweiler, esponente della prima ora di Afd molto vicino ai leader Alice Weidel e Alexander Gauland – “Abbiamo brutte esperienze in Germania con le adesioni a movimenti esterni.
La volontà politica si deve formare all’interno del partito, ci sono i congressi, le assemblee, lo statuto, non c’è bisogno di altre iniziative”. Alle defezioni si aggiunge poi un ulteriore rompicapo. Ci sono altri candidati perfetti per rinforzare le fila del Movement: il tedesco Horst Seehofer, l’austriaco Sebastian Kurtz, l’ungherese Viktor Orban, tre alfieri della lotta all’immigrazione. Peccato che tutti e tre facciano ancora parte del Partito Popolare Europeo. Quanto può durare la convivenza forzata con coinquilini come Merkel, Weber, Daul, Oettinger? Riusciranno Bannon & Co a strapparli dai popolari, o all’orizzonte si profila un’alleanza post voto? Di certo c’è che i numeri sovranisti (L’Istituto Cattaneo a luglio li dava al 25%) obbligano i popolari a considerare qualsiasi ipotesi.
IL PROGRAMMA
Il sito ufficiale ancora non c’è. Ma da un’inchiesta de La Stampa si possono tirare le prime somme. The Movement ha visto la luce a Boitsfort, un elegante quartiere di Bruxelles, il 9 gennaio 2017. All’atto costitutivo hanno presenziato Modrikamen, sua moglie Yasmine Dehaene, e Laura Ferrari, ex assistente parlamentare del gruppo Efdd. Nello statuto c’è un assaggio delle linee programmatiche. Per l’Europa la stella polare sarà la promozione della “sovranità delle nazioni, le frontiere nazionali, la lotta contro l’Islam radicale, l’approccio scientifico e non dogmatico dei fenomeni climatici e la difesa di Israele”.
C’è spazio per ambizioni extracomunitarie: mantenere il “legame tra il Movimento iniziato dal presidente Trump in Usa e i cittadini e movimenti politici attivi negli altri Paesi”. E, ça va sans dire, una revisione dei rapporti con Mosca: “la Russia non ha bisogno di nemici, ma di amici. Il tempo del confronto tra Europa e Russia è finito, la divisione non è più tra Est e Ovest, ma con l’Islam radicale”.