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L’implosione del Pd

La “caduta” rovinosa di Franco Marini, non per mano dei “franchi tiratori”, ma per l’azione concentrica di conclamati cecchini appartenenti alle fazioni più disparate, suggella un fallimento politico che non è esagerato definire “storico”. Il Pd è riuscito nella rara impresa di autodistruggersi in tre mesi, con una scientificità che a memoria d’uomo non ha riscontro nella politica italiana degli ultimi vent’anni.

Alla vigilia delle elezioni veniva sondato come primo partito e ritenuto l’asse intorno al quale la coalizione di centrosinistra avrebbe organizzato la sua vittoria e gestito il dopo-voto con una marcia trionfale verso Palazzo Chigi. Poi l’amara sorpresa uscita dalle urne. Bersani, frastornato, non ha capito di aver perso la partita e si è intestardito nel rivendicare la costituzione di un governo che non aveva il sostegno di una maggioranza, mettendo il capo dello Stato nella spiacevole condizione di dare fondo alla sua fantasia politica ed inventarsi comitati di improbabili saggi pur di guadagnare tempo e passare la palla al suo successore.

Sia pure con deprecabile ritardo, il vertice del Pd si è dunque reso conto, che non c’era nulla da fare se non tentare un “governissimo”, magari di scopo, con il Pdl e Scelta civica. Ma lui, il segretario, tetragono, non ha voluto saperne ed ha continuato ad inseguire i “grillini” che lo hanno ridicolizzato in tutti i modi. Renzi ha fatto la sua parte dimostrando ingenerosità, arroganza ed una ambizione sconfinata: dietro quel suo sorrisino da bravo ragazzo si cela un arrampicatore politico privo di idee e sopravvalutato dai media. Il massimo che è riuscito ad esprimere, cavalcando l’onda dell’antipolitica, è la “rottamazione”, concetto rozzo ma efficace di questi tempi. Mentre Fabrizio Barca, più attrezzato culturalmente e politicamente, ha impiegato il tempo che Bersani perdeva per costruirsi un’immagine di possibile leader ed ha lanciato un’Opa sul partito con la presentazione di un documento sul quale almeno si può discutere anche al fine di respingerlo.

Le divisioni, frattanto, si sono fatte vistose. Le trame sono diventate scoperte. L’ibridazione renziana-dalemiana non ha portato bene: tendeva a ricomporre ciò che non era possibile ricomporre, vale a dire una formazione politica assalita dall’incertezza, dal timore di dispiacere agli alleati e dal terrore di aprire un dialogo con gli avversari. Insomma, la paura della politica si potrebbe dire.

Infine, constatata la piega che prendeva la situazione, di fronte all’impossibilità di formare un governo e alla necessità di vincere almeno la partita del Quirinale, nel Pd hanno preso a manovrare intorno alla segreteria e perfino i sostenitori più strenui di Bersani si sono resi conto della sua inadeguatezza.

Ma il tempo del Pd era ormai scaduto. Non poteva affrontare le prove del fuoco – Quirinale e Palazzo Chigi – da solo. Ecco l’uovo di Colombo: un trastullo politicista con il vecchio Caimano almeno per vedere l’effetto che avrebbe fatto. Marini era un buon agnello sacrificale, tanto per far venir fuori la rabbia della base del partito, l’indignazione dell’antiberlusconismo militante, la purezza “rivoluzionaria” grillina e renziana: ci sarebbe da ridere, se non fosse una storia penosa. Il Pd, assolutamente non attrezzato al “grande gioco” finito nelle maglie di Berlusconi a cui non è sembrato vero ridurlo a fiera esausta e morente, è andato in confusione per poi finire, nelle ultime ore, letteralmente in pezzi.

Difficile rattaccarli. Nel convento disordinato dei democrat convivono due, tre, forse quattro partiti. Tutti contro tutti. La coalizione si è frantumata. Sel se n’è già andata per conto suo. Il rapporto con Grillo è inesistente, anzi apertamente e violentemente conflittuale. Marini non sarà eletto. E quasi sicuramente neppure D’Alema. Il peggio che può capitare a Bersani si chiama Rodotà. E se così dovesse andare non solo la storia personale del leader piacentino finirebbe, ma anche quella di questo Pd sotto il cui tetto in tanti non vogliono stare insieme con chi lo ha “sporcato”.

Il Pd, insomma, è un cumulo di macerie la cui implosione è stata ritardata dall’unico collante che teneva insieme le varie anime: l’antiberlusconismo. Povertà prossima alla miseria politica, e non solo. Insomma, non ha mai costruito una strategia perché non aveva una cultura di riferimento. E perfino i sommovimenti sociali non sono stati adeguatamente compresi ed interpretati dalla sua classe dirigente.

Ieri, nel primo pomeriggio, si è consumato l’ultimo atto di una storia iniziata alla Bolognina nel 1989. Dopo l’elezione del presidente della Repubblica, comunque andrà, il Pd non sarà più lo stesso.


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