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Blockchain, perché l’Italia deve (e può) fare di più. Parla Luciano Floridi

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Un primo passo nella direzione dello sviluppo di una strategia nazionale digitale, anche se forse un po’ tardivo, ma certamente apprezzabile. Luciano Floridi, filosofo, docente a Oxford e esperto di Intelligenza artificiale e sviluppo del digitale commenta con moderazione la firma messa ieri a Bruxelles dal vicepremier e titolare del Mise Luigi Di Maio alla Blockchain Declaration, con cui la Commissione europea intende essere uno strumento per “lo scambio di esperienze e competenze in campo tecnico e normativo tra gli Stati membri” e vuole preparare “il lancio di applicazioni Blockchain a livello Ue. Secondo il professore, l’Italia deve investire di più, puntare a una strategia nazionale ben definita così da poter dialogare con gli attori europei, ma non solo. Intanto questa mattina il Mise ha pubblicato sul sito del ministero la call per la formazione di un gruppo di esperti di alto livello per l’elaborazione della strategia nazionale sulla blockchain, sulla falsa riga di quanto fatto a metà settembre sull’Intelligenza Artificiale. E sulla democrazia digitale…

Oggi Di Maio ha firmato la Blackchain Declaration, definita da Mariya Gabriel la chiave per una “Human-centric internet”. Cosa rappresenta per l’Italia?

È una banalità. Abbiamo semplicemente raggiunto un gruppo che era partito ad aprile, certo meglio tardi che mai, ma erano già presenti 25 Paesi in questa European blockchain partnership, l’Italia è forse una delle ultime ad aggiungersi. È un gruppo di lavoro che, come molte iniziative dell’Unione europea, cerca di fare un quadro generale su dove siamo in Europa sulla Blockchain in questo momento e allo stesso tempo di unificare e far sì che si faccia un po’ di progresso a livello europeo tutti insieme così che non ci siano 26 Paesi che si muovono separatamente. Ci sono anche dei fondi, stanziati dall’Ue, che dovranno essere utilizzati per finanziare questa iniziativa. Mi ha sorpreso un po’ questo annuncio come se fosse una firma significativa, l’evento del futuro, è un passo importante sicuramente e bisognava farlo – anche se forse un po’ tardi, ma non penso ci fosse un governo in Italia in grado di compierlo prima – però l’eccitazione attorno a questo annuncio mi sembra eccessiva. È una delle tante cose che un buon governo dovrebbe fare e l’Italia l’ha fatto. È forse un po’ peculiare che non ci fossimo accorti prima di questa possibilità. Ma resta un’ottima idea, fatta nei tempi che gli hanno permesso di mettere questa firma. Spero non venga utilizzata come propaganda.

Si parla, tra le altre cose, anche di un Fondo nazionale per l’innovazione digitale, come appena fatto per l’intelligenza artificiale. Su cosa dovrebbe puntare l’Italia?

Secondo me sta facendo bene il nuovo governo a puntare su Intelligenza Artificiale e Blockchain. Dovrebbe cominciare a pensare a una strategia nazionale su che cosa si vuole fare con l’Intelligenza Artificiale in Italia. L’Italia non ha un ministro del digitale, questo è sicuramente un limite, lo hanno tutti i Paesi più importanti con cui l’Italia ha a che fare, quindi potrebbe essere un buono strumento – nei limiti in cui il nostro sistema lo permetta – pensare a una figura di riferimento che incarni queste tematiche al quale dare anche la libertà e l’autonomia di fare, volta per volta, ciò che è necessario per spingere ancora di più, ad esempio, sui pagamenti online e le transazioni digitali, combattere ad esempio l’evasione fiscale. Dobbiamo capire dove vogliamo porci, e l’Europa è già partita. Io mi occupo di Intelligenza Artificiale e ho visto che anche l’Italia ha voluto fare, a metà settembre, una call di esperti per l’Istituzione di un Gruppo di alto livello per l’elaborazione della Strategia nazionale sulla IA (di oggi è invece la call per istituire un gruppo anche sulla Blockchain, ndr), ma la partecipazione al gruppo di lavoro è volontaria, il che a mio avviso mostra che non è un progetto serio.

Cosa intende?

Vuol dire che la partecipazione a questo gruppo sarà soltanto legata a chi se lo può permettere, ed è un peccato che ad esempio, siano solo le grandi aziende e non le Startup a poterselo permettere. Queste sono le piccole cose che fanno una grande differenza. So che il governo ha attualmente tantissime cose a cui pensare, quindi forse l’Intelligenza Artificiale, i pagamenti online, la Blockchain e in general il benessere digitale della nazione non arrivano proprio come primi punti, però appunto per l’Italia è una grande opportunità: noi siamo un Paese che vive di grandi esportazioni e di economia dell’esperienza (si pensi al turismo), e in questo il digitale è fondamentale. L’esportazione del Made in Italy ovviamente oggi senza digitale non ha una reale strategia per il futuro: puntare su questi due aspetti penso sia fondamentale. Sono contento che il governo abbia iniziato a fare qualche passo in questa direzione, che è quella giusta, ma ne vorrei di più frequenti e di più lunghi.

Il Movimento 5 Stelle di Luigi Di Maio, ministro dello Sviluppo Economico e vicepremier, punta molto sulla trasposizione dei processi democratici online, democrazia digitale, infatti M5S si avvale di una piattaforma in rete, Rousseau, per consultare gli iscritti. Si è parlato molto di Blockchain per migliorarne la sicurezza, che cosa ne pensa?

Blockchain con la democrazia digitale ha davvero poco a che fare. È un peccato, nel senso che sono in buona compagnia l’una con l’altra ma non è che la Blockchain serve a migliorare la democrazia digitale. La Blockchain è una certificazione di un prodotto, di un servizio, che cosa c’entri con la democrazia digitale lo sanno solo i retori che se ne sono appropriati, lascia perplessi. La Blockchain serve altrettanto bene a promuovere la democrazia rappresentativa. Credo che ci sia una volontà di unire cose che non c’entrano, si può fare in modo un po’ superficiale. Come avrebbe detto Hegel, “Nella notte tutte le vacche sono nere”, basta appiccicare “digitale” e allora tutto si confonde: blockchain è digitale, la democrazia è digitale, la piattaforma è digitale, quindi sono tutti nello stesso brodo. La Blockchain ha una funzione tecnica, tanto è vero che uno degli sponsor principali sono le banche internazionali, può immaginare quale sia il rapporto tra le grandi banche internazionali con la democrazia digitale dal basso che prevede il voto su molteplici temi. La connessione, se vogliamo, è che viviamo in un contesto sempre più digitale, dalla sfera politica a quella finanziaria, da quella della certificazione a quella del mondo del lavoro, tutti quanti stanno avanzando in questo nuovo spazio che ho chiamato l’infosfera. Se tutti si muovono nell’infosfera è chiaro che tante cose diventano ormai digitali: dalla certificazione di chi costruisce l’automobile fino ad arrivare ad operazioni come il voto elettronico. Ma mettere tutto sulla stessa linea, dire che la Blockchain è una cosa che fa bene alla democrazia digitale, è una forzatura. C’è un punto fondamentale, però, che ho sentito anche in un video pubblicato da Luigi Di Maio proprio sulla Blockchain.

Quale?

La disintermediazione. Questo è importante e va capito meglio. Se Blockchain toglie alcuni intermediari, ne inserisce altri. Come per il caso di Bitcoin una valuta che non ha bisogno delle banche nazionali, ma poi sei nelle mani di un piccolo gruppo internazionale e di operatori che fanno il bello e il cattivo tempo, infatti sappiamo quanto è volatile il Bitcoin rispetto a una normale valuta. Noi allora ci fidiamo di questi gruppi più tecnocratici piuttosto che fidarci della banca nazionale italiana o europea, quindi c’è un passaggio di affidamento. Blockchain vuol dire semplicemente spostare la quantità e la qualità della certificazione da strumenti che sono di tipo analogico, e in questo caso Di Maio ha ragione a fare un paragone con il vecchio notaio, a strumenti di tipo digitale e automatizzato di controllo, perché non c’è bisogno dell’essere umano che passi a controllare ogni riga. In questo contesto, ha ragione l’Associazione europea dei notai ad essere preoccupata. Però questa disintermediazione, è un po’ sciocco e forse semplicistico porla come un potere al popolo. Non è così, è una rintermediazione con altri mezzi. Se io tolgo la mediazione del notaio è perché qualcuno ha introdotto Blockchain, come per esempio questo gruppo europeo, che sarà poi il responsabile per il suo funzionamento e i suoi protocolli. Gli intermediari ci sono, ma viene cambiata molto la loro figura. Se, guardando molto avanti, l’euro diventerà una valuta digitale: chi garantirà questo euro? Io non voglio essere un guastafeste, perché vedo del buono, ma mi dispiace quando questo buono viene venduto come eccezionale e rivoluzionario spostandosi dalla sua effettiva bontà.

Se c’è solo un cambiamento di intermediario, come ha detto lei, quali sono i rischi dell’uso della Blockchain nei processi di voto online, che ci si riferisca alla piattaforma del Movimento 5 Stele, ma non solo?

Non è molto chiaro, non lo è in generale capire dove stiamo andando. Se la Blockchain, o simili, servono a disintermediare nel senso vecchio, antico, novecentesco, e creano una certificazione distribuita per cui è difficile, se non impossibile (almeno praticamente) modificare qualcosa senza che questo non risulti identificabile, se si documenta e garantisce come è stato fatto ogni passo e ogni passo è certificato, allora se c’è stato un errore è facilmente identificabile. Questa catena che si crea tra l’oggetto e il servizio fruito dal cittadino e dalla cittadina e a fonte che lo ha erogato o prodotto, questa catena è una novità ed è importante, perché non l’abbiamo mai avuta prima, o meglio, è come se si tornasse ai tempi in cui io sapevo da dove veniva l’insalata perché me l’avevi venduta tu e l’avevi coltivata nel tuo orto. Quando questo divario tra la provenienza e l’utilizzo di qualcosa è molto ampio serve ricucire il rapporto tra la fonte e l’utilizzo e Blockchain fa questo. Blockchain introduce questo concatenamento del servizio o dell’oggetto alla sua fonte, questa è una bellissima e straordinaria rivoluzione che noi stiamo attraversando e lo stanno facendo un po’ tutti soprattutto chi si occupa di servizi che possono essere a rischio.

Lei ha scritto, in un pamphlet pubblicato con la Rivista Formiche intitolato “Il verde e il blu – Idee ingenue per migliorare la politica in una società matura dell’informazione”, che del “nuovo continente digitale” in cui ci muoviamo conosciamo poco, e che per non lasciarlo alla logica del profitto abbiamo bisogno di buona politica. In cosa può consistere questa buona politica?

Il governo ha fatto un primo passo, seppure tardivo, ma si può fare di più e meglio. Se noi in Italia avessimo un approccio un po’ meno antiscientifico sarebbe una cosa buona, avremmo bisogno di una percezione non solo dei rischi connessi con il digitale, che come tutte le tecnologie un po’ dirompenti rivoluzionano le cose creando anche qualche grattacapo, ma soprattutto dei vantaggi, che non sono soltanto economici. Il digitale non è soltanto un modo per creare aziende che generano profitto, ma serve anche a far sì che si innalzi la qualità della vita, che la distribuzione dei benefici che le nuove tecnologie stanno portando sia più equa e che in questo si possa fare poi i conti non soltanto con i benefici per l’essere umano ma anche il benessere più generale. Dal punto di vista capitalista il digitale è uno dei grandi meccanismi che abbiamo oggi per creare ricchezza, non funziona bene, al momento, per distribuirla e crearla in maniera equa. Ecco, questi due elementi sono indispensabili. Produciamo ricchezza con il digitale, poi usiamo anche il digitale per distribuirla meglio, ad esempio lotta all’evasione, per incentivare l’economia verde, per una migliore informazione. Questo è il contesto in cui il digitale può fare la differenza, però bisogna investire. Per questo ci vorrebbe una strategia nazionale in coordinamento poi col resto dell’Europa: perché fa da interfaccia con gli altri Paesi, è come avere una lingua comune, una sorta di koinè con la quale tu parli con gli altri Stati. Senza questa lingua comune non puoi andare a discutere.



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