Il discorso di Donald Trump all’Assemblea generale delle Nazioni Unite è un messaggio chiaro a tutti: la globalizzazione è in una fase di ritirata. Nonostante la risata collettiva dopo l’incipit del Presidente Usa nel suo discorso, la questione sembra essere ormai chiara per tutti: il nazionalismo sta vincendo. Gli esperti e gli accademici possono continuare a predicare i valori universali e la necessità di combattere qualsiasi forma di identità dei popoli. I media possono raccontare il mondo attraverso le lenti dell’universalismo dei diritti umani.
L’élite globale può ritrovarsi a Davos e proclamare che le divisioni sono terminate e la storia è finita. Ma il nazionalismo è vivo e vegeto. Il nazionalismo è vivo e vegeto in tutta l’Asia orientale, dove gli stati moderni uniti dalla razza e dall’etnia, come la Cina, il Giappone, il Vietnam e le Filippine, battagliano non su nobili idee ma sulla geografia e sugli spazi – cioè su delle linee immaginarie nella cartografia del Pacifico. L’avanzamento della tecnologia militare – caccia, missili balistici, satelliti di sorveglianza, navi da guerra – ha creato una nuova geografia della competizione strategica tra due grandi civiltà del mondo, quelle della Cina e dell’India. La Primavera Araba è stata fondamentalmente una crisi dell’autorità centrale, in cui le identità etniche, tribali, religiose si sono ribellate al “centro”.
In Europa, il costante declino dell’Unione Europea, originato da una crisi economica durata più di 10 anni, ha portato gradualmente alla rinascita delle identità nazionali. Negli Stati Uniti un Presidente americano ha vinto sullo slogan “America First”. Nel cuore dell’Africa esiste ancora una conflittualità latente ed esplicita basata su identità religiose e tribali come nella Repubblica Centrafricana e nel Sud Sudan. Chiaramente, gli analisti occidentali parlano un linguaggio diverso rispetto ai grandi elementi delle masse in tutto il mondo. Un’asincronia che si sostanzia in una definitiva rottura, l’equivalente di una guerra civile globale fra chi sta in alto e chi sta in basso.
In “Babel”, Salvatore Santangelo – docente universitario e analista di politica internazionale – racconta questa inquietante situazione. Il titolo definisce l’orizzonte: il mito della torre di Babele descrive il tentativo degli uomini di costruire un mondo omogeneo, dove gli uomini parlano tutti la stessa lingua. La torre è stata distrutta, le popolazioni disperse e la lingua si è frammentata in tante lingue. Letto in combinato con il sottotitolo, “Dai dazi di Trump alla guerra in Siria: ascesa di un mondo globale”, ci dice immediatamente il punto di vista dell’autore: la frammentazione e l’impulso alla riscoperta delle identità particolari sembrano costituire oggi lo sbocco paradossale e più probabile di un globalismo che non è riuscito ad “appiattire” il pianeta.
In una dotta dissertazione, l’autore spiega nel profondo le ragioni della crisi della globalizzazione, partendo proprio dal dibattito nella teoria delle relazioni internazionali originato negli anni successivi al crollo del mondo bipolare. Sia Francis Fukuyama – con l’indicazione della liberaldemocrazia come fase finale dello sviluppo umano – che lo “Scontro” di Samuel Huntington si sono rilevati assunti sbagliati, nonostante l’adesione quasi fideistica alle loro idee. Raggiunto, ha voluto specificare come “il paradosso che registriamo è che, con la Caduta del muro di Berlino e la dissoluzione dell’Urss, si è parlato di fine dell’era ideologica, dell’avvento di un mondo post ideologico, dove il pragmatismo e il neoliberismo – con la sua declinazione di libero mercato – sarebbero stati i punti di riferimento, la cornice imprescindibile.”
“Invece – ha continuato – ci troviamo totalmente immersi in un serrato dibattito che non possiamo non definire ideologico. Non è un caso che ho voluto chiamare un capitolo ‘Narrazioni’: già in quegli anni, si può notare come uno scontro tra narrazioni diverse si sia strumentalmente sovrapposto allo scontro di idee. Si tratta di quello che oggi sintetizziamo con il fortunato termine ‘storytelling'”. Il 1973 e il 1978 sono anni simbolo. Dal 1973 ad oggi lo Stato ha terminato il suo interventismo in campo economico, lasciando spazio ad un lungo dominio nel campo della teoria economica delle idee monetariste: da quell’anno c’è stato un incremento costante della concentrazione della ricchezza in poche mani e un insostenibile aumento degli indici di diseguaglianza, ossia un mondo diviso fra un 1% ricchissimo e un 99% che tende a impoverirsi.
Nel 1978, con l’apertura ai mercati della Repubblica Popolare Cinese, i salari degli americani hanno cominciato a decrescere, in un trend globale di decrescita della capacità economica del ceto medio che, tendendo ad indebitarsi per mantenere la domanda globale, ha gettato le basi per la crisi economica che dal 2008 ha colpito le nostre società. Il ceto medio, depauperato e in fase di fibrillazione, è alla ricerca di risposte alla crisi di sicurezza e alla richiesta di futuro.
L’emersione delle forze populiste e sovraniste – spiega l’autore – è, consapevolmente o inconsapevolmente, “il tentativo di riscatto di tutto il ceto medio occidentale”. “Oggi i populismi e i sovranismi appaiono vincenti, in grado di coagulare il consenso, ma le forze della globalizzazione sono altrettanto potenti. Quindi non sappiamo, come già detto, quale sarà la configurazione finale – ha continuato – ma schematizzando, individuo 3 flussi principali alla base del mondo globale (di informazioni, di esseri umani, di merce e denaro). Ognuno di questi flussi ne sta generando altrettanti contrari: tariffe, controllo dell’informazione, blocco delle frontiere: un fenomeno che ho appunto chiamato ‘blowback'”. Il nazionalismo sta sì tornando, ma è il risultato di un precedente processo di globalizzazione. In effetti, potrebbe esserci un riequilibrio in termini di identità personali e comunitarie, con la consapevolezza che non siamo semplicemente individui indistinguibili che si incontrano l’un l’altro in una sala riunioni globale. Abbiamo singolarità che formano ciò che siamo e che ci distinguono dagli altri.
Il nuovo nomos della Terra – come conclude l’autore – potrà assumere la forma di un vasto mercato planetario, di un’immensa zona di libero scambio, oppure di un mondo in cui i grandi blocchi continentali – nel contempo potenze autonome e crogioli di civiltà – svolgono un ruolo regolatore nei confronti della globalizzazione stessa, preservando così la diversità degli stili di vita e delle culture, unica vera ricchezza dell’umanità.