Sempre più difficile e complicato. Prima il “nein” (meglio dirlo in tedesco) della Commissione europea, poi la dura reazione dei mercati, alla ricerca di una via di fuga da un Paese che non garantisce circa il futuro del suo debito pubblico. Infine il pollice verso di tutte le authorities chiamate a pronunciarsi, nell’ambito delle procedure di legge, previste per la manovra di bilancio: Corte dei conti, Banca d’Italia ed Ufficio parlamentare del bilancio. Tutti soggetti collusi, nel tentativo di abbattere il governo giallo-verde?
Ragionamenti del genere non portano da nessuna parte. Meglio sarebbe stato prendere atto delle contraddizioni interne alla manovra di bilancio, la cui impostazione non convince. Non è tanto l’aumento del deficit a preoccupare, quanto la sua scarsa incidenza sui fondamentali dello sviluppo. Ammettiamo pure che, a seguito di un aumento della spesa corrente (pensioni e reddito di cittadinanza) vi sia una crescita della domanda interna. Quali saranno gli effetti collaterali, attualmente completamente trascurati, dell’intera manovra?
L’esperienza degli 80 euro, che rappresenta l’elemento ispiratore della determinazione con cui i 5 stelle hanno perseguito quest’obiettivo soprattutto dal punto di vista elettorale, può fornire una prima indicazione. Nel 2015, quando la misura è andata a regime, un certo effetto positivo sulla dinamica del Pil si è verificato. Allora la crescita fu dello 0,9 per cento. Ma i consumi delle famiglie, dopo anni di carestia, aumentarono dell’1’9 per cento. Insieme agli investimenti. La cui dinamica fu tuttavia influenzata dal boom dei “mezzi di trasporto”, con una crescita di oltre il 25 per cento, rispetto all’anno precedente. Il che la dice lunga su come furono utilizzati, in molti casi, le maggiori risorse in busta paga. Grazie a provvidenze la cui distribuzione prescindeva da un reale stato di bisogno.
La principale differenza rispetto ad allora è data dalla maggior crescita dei consumi negli anni successivi. Segno evidente che un gap è stato, almeno in parte, colmato, come risulta evidente dalla spesa in mezzi di trasporto, con un tasso di crescita sempre superiore al 20 per cento, fino al 2018. Corsa che, stando alle previsioni del governo per il 2019, sembrerebbe destinata ad esaurirsi rapidamente. La previsione per il 2019 è di un aumento limitato al 6,5 per cento. Naturalmente questi dati sono come le medie di Trilussa, ma dal punto macroeconomico sono comunque significativi. Ne deriva che se anche i 9 miliardi previsti per il salario di cittadinanza fossero spesi interamente, la maggiore spesa complessiva non supererebbe l’1 per cento. Con un effetto “modesto e graduale” (Banca d’Italia) sul tasso di sviluppo complessivo.
Non è tuttavia questo il principale elemento di preoccupazione. Gli 80 euro di Matteo Renzi, grazie anche o soprattutto (dipende dai punti di vista) al quantitative easing di Mario Draghi, non determinarono la reazione negativa dei mercati. Gli spread rimasero contenuti. Gli andamenti di borsa positivi. Oggi la prospettiva è rovesciata ed il pericolo più evidente è connesso con lo stato di salute delle banche, che sono le prime vittime sacrificali del nervosismo dei mercati. Se l’ascesa degli spread non si dovesse fermare, le banche sarebbero costrette a razionare il credito a causa delle perdite patrimoniali subite e dovute alle minusvalenze sui titoli tenuti in portafoglio. Ne deriverebbe una contrazione dell’offerta complessiva, e quindi una compressione del ritmo di sviluppo.
Queste preoccupazioni spiegano il giudizio dell’Ufficio parlamentare per il bilancio, che teme una duplice contrazione: del Pil in termine reali, ma soprattutto del Pil in termini nominali. Essendo questo il basamento su cui si costruiscono tutti i principali di finanza pubblica. L’idea è che ad una minore crescita in termini reali si accompagni lo scarso dinamismo dei prezzi interni e quindi una minore inflazione, rispetto alle medie dell’Eurozona, determinando l’ulteriore compressione del Pil nominale. Fenomeno che si è già verificato negli anni precedenti ed ha contribuito non poco al peggioramento del rapporto debito-Pil.
Ai rilievi sollevati dall’Ufficio parlamentare per il bilancio, che ha costretto il ministro Tria ad un supplemento di audizione presso le Commissioni bilancio riunite, non sono seguiti propositi di cambiamento da parte del governo. Caso del tutto insolito. Nell’autunno del 2016 successe qualcosa di simile. La manovra del governo Renzi fu inizialmente bocciata per eccesso di ottimismo. Pier Carlo Padoan si vide così costretto ad alzare l’asticella del deficit programmatico (dall’1,9 al 2,3 per cento) per dare maggiore slancio all’economia e lasciare immutata l’ipotesi di crescita complessiva. Mediazione alla fine accolta dal Parlamento e successivamente dalla Commissione europea, che su quelle valutazioni basa anche il proprio referto.
Nei prossimi giorni, in un clima che tende al calor bianco, la stessa Commissione si troverà di fronte a previsioni non avallate da Organi indipendenti. Facile prevedere quali potranno essere i possibili risultati. Ma ad essi è meglio non pensare. Anche perché subito dopo dovrebbero esserci i pareri delle agenzie di rating a completamento di un vero e proprio percorso di guerra. Per fortuna, almeno oggi, i mercati hanno segnato una breve tregua con un piccolo rimbalzo in borsa ed una caduta degli spread sotto quota 300. Non è tanto, ma bisogna anche sapersi accontentare.