Il quadro previsivo su cui si fonda la manovra del governo non ha convinto la Banca d’Italia e la Corte dei Conti e, ciò che più conta, non è stato validato dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio (Upb). Quest’ultimo è un organismo indipendente, legato a un network europeo, che ha il compito di dire le verità scomode. Nel 2016 bocciò la manovra di Renzi-Padoan che furono costretti ad adeguarsi.
Il ragionamento dell’Upb è molto semplice. Gli indicatori congiunturali ci dicono che l’attività produttiva sta registrando un forte rallentamento e che con tutta probabilità la crescita del Pil dovrebbe collocarsi attorno allo 0,1% negli ultimi due trimestri dell’anno. Con questa eredità statistica negativa, affinché si realizzi una crescita dell’1,5% nella media del 2019, occorre che la variazione trimestrale registri un balzo verso l’alto allo 0,5% per tutto l’anno, il che significa viaggiare al ritmo tendenziale del 2%. Ciò non si verifica dalla fine degli anni Novanta.
L’Upb fa poi il confronto con le previsioni dei principali centri di analisi che si collocano tutti attorno all’1%. Le previsioni più recenti, ad esempio quella del Centro Studi di Confindustria, si collocano su valori anche più bassi. Dunque, il valore di 1,5% previsto dal governo sta ben sopra le previsioni della maggior parte dei centri di analisi. Si potrebbe obiettare che nessuno di questi centri aveva previsto l’aumento del deficit al 2,4%, che verosimilmente darà uno stimolo alla domanda interna. L’Upb risponde a questa obiezione partendo dal deficit tendenziale sotteso alle previsioni di consenso, che è all’incirca uguale al deficit tendenziale del governo (1,2%) cui vanno aggiunte le clausole di salvaguardia Iva (0,7% del Pil) che tutti davano per scontato sarebbero state disattivate con maggior deficit. Dunque il punto di partenza è un deficit a 1,9% che, nel quadro programmatico, diventa 2,4%. Ecco dunque che un maggior deficit di 0,5% (da 1,9 a 2,4) produrrebbe, nell’analisi del governo, un maggior Pil di 0,5% (da 1 a 1,5). Ciò comporta un moltiplicatore pari ad 1, che non è plausibile dal momento che la gran parte del maggior deficit è rappresentato da trasferimenti correnti che hanno un moltiplicatore relativamente basso.
A questo si aggiunge una considerazione importante che è appena accennata nel documento Upb. Il rallentamento congiunturale in corso è più accentuato in Italia che nel resto d’Europa per via di un forte calo di fiducia in particolare delle imprese. Gli stessi fattori di incertezza che hanno allontanato dall’Italia gli investimenti finanziari e contribuito all’aumento dello spread pesano anche sull’economia reale. Con le incertezze che gravano sulla sostenibilità del debito pubblico nonché sull’appartenenza dell’Italia alla moneta unica, è difficile che le imprese, italiane o straniere, decidano di investire, avviare nuove attività o ampliare quelle esistenti.
Dunque, il quadro del governo si fonda sull’ipotesi che queste incertezze vengano rapidamente dissipate e lo spread torni ai valori dell’inizio dell’anno. Come ha detto il ministro Tria in risposta all’Upb: “Non dobbiamo lasciare che la volatilità di breve termine dei mercati offuschi la nostra capacità di formulare valutazioni e previsioni equilibrate”. Ma la verità è che la fiducia, una volta persa, non la si recupera in un mese e forse neanche in un anno. E questo è l’aspetto più preoccupante della situazione attuale.