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Khashoggi, l’interrogatorio “fuori controllo” e la difesa di Riad

iran, arabia,

L’Arabia Saudita ha pronta la sua (nuova) versione sui fatti che riguardano il giornalista Jamal Khashoggi: dopo aver negato per tredici giorni, Riad potrebbe ammettere di aver ucciso il famoso editorialista del Washington Post all’interno del consolato di Istanbul durante un’operazione con cui una squadraccia dei servizi segreti sauditi intendeva rapirlo per riportarlo con la forza in patria, da dove il giornalista si era auto-esiliato in Virginia per ragioni di sicurezza.

La prima a ricevere questa informazione, non ancora ufficiale, è stata la CNN, ma poi altri media americani hanno replicato: il governo saudita intende diffondere una nota in cui dichiara che tutta la missione è stata gestita da un graduato dei servizi finito “fuori controllo”, ed è poi andata male (partita pure, si direbbe, visto che tra i 15 agenti atterrati a Istanbul per rapire Khashoggi c’era un anatomo-patologo che portava con sé una segaossa, ndr). La versione – che smentisce le precedenti dichiarazioni: il giornalista è uscito incolume dell’edificio diplomatico – potrebbe essere perfetta per creare la base per scagionare le alte sfere del regno, soprattutto l’erede al trono e deus ex machina Mohammed bin Salman, MbS, che potrebbe aver solo approvato la missione, ma non l’uccisione e il successivo smembramento del corpo.

L’azione dell’ufficiale sarebbe andata oltre i limiti d’ingaggio, ed è l’iniziativa personale a costituire l’appiglio per ricostruzioni laterali, tipo quella che presuppone un qualche sabotaggio dall’interno dell’immagine internazionale del nuovo corso saudita – bin Salman è impegnato in lotte di potere a palazzo, mentre cerca di lanciare a livello globale l’enorme piano per differenziare l’economia dal petrolio e diffondere un’immagine visionaria del regno. La settimana scorsa, il Washington Post aveva ricevuto informazioni dall’intelligence americana secondo cui MbS stava proprio progettando un’operazione per rapire Khashoggi e riportarlo in Arabia Saudita con accuse vaghe, tra cui quella di collegamenti forti con la Fratellanza Musulmana, che nel regno è considerata un’entità terroristica.

La linea che adesso potrebbe seguire Riad dovrebbe servire come forma di protezione con cui smarcare l’erede al trono – che incontra i guru delle aziende della Silicon Valley come fossero capi di Stato e porta valigie di soldi da investire nell’innovazione – da certe pratiche tremende che mandano in tilt le buone volontà (vere o propagandate) saudite contro la realtà sul rispetto dei diritti civili nel paese.

Questa posizione presa dal regno è anche probabilmente frutto di un accordo raggiunto tra Turchia e Arabia Saudita, con l’intercessione americana – il segretario di Stato, Mike Pompeo, è stato inviato dall’amministrazione Trump a Riad per trovare, o almeno costruire, risposte credibili sulla vicenda, e nel viaggio farà scalo ad Ankara (domani).

I turchi da subito hanno passato informazioni ai media sui fatti, che evidentemente conoscono bene perché, come dicono, hanno audio e video dell’assassinio (e come li hanno ottenuti? Le autorità turche sono un po’ vaghe, ma molto probabilmente tenevano sotto sorveglianza il consolato saudita, anche perché ultimamente i rapporti tra i due paesi non sono eccezionali, dato che Riad vede Ankara come un partner del Qatar, con cui invece i sauditi hanno chiuso i ponti). Ma non possono diffonderli: il presidente Recep Tayyip Erdogan ha tenuto sempre una posizione morbida sulla vicenda, facendo però intendere pubblicamente (e di certo ancora di più privatamente) ai sauditi di aver tutto per metterli sotto scacco.

La ricostruzione sul coinvolgimento di elementi dell’intelligence andati fuori controllo, per altro, piace a tutti gli attori in scena: ai turchi, che accusano i servizi deviati di aver messo in atto il golpe del luglio 2016; agli americani, dato che il presidente allude continuamente a un Deep State che sta cercando di farlo cadere (e infatti il presidente Donald Trump, prima ancora che uscisse la notizia del comunicato di Riad, aveva detto che a uccidere Khashoggi potevano essere stati “rogue killer“, assassini canaglia fuori controllo; ai sauditi, avallando le iniziative di MbS che sta da almeno un paio d’anni portando avanti un repulisti interno contro chi non sta dalla sua parte e vuol boicottare i suoi piani.

Qui, però, la faccenda sembra opinabile: perché l’erede al trono sembra che abbia praticamente in mano il completo controllo – anche formale – dei servizi di sicurezza e difesa. È possibile che l’erede al trono e i suoi uomini non fossero arrivati a conoscenza che quindici agenti dei servizi segreti erano volati in Turchia su due charter privati, avevano anticipato ai dipendenti del consolato che il 2 ottobre (data dell’assassinio) sarebbe stato un giorno di festa anticipato per avere l’edificio libero, hanno preso la più importante figura del giornalismo saudita (per capirci: quasi due milioni di follower su Twitter) per pestarla a sangue, per poi rientrare dopo poche ore in Arabia Saudita?

Oppure, è davvero così critica la situazione di MbS? Se è vera questa seconda ipotesi, allora la forza con cui MbS spinge le sue attività – visite, manifestazioni, investimenti – fuori dal Golfo è solo una questione di immagine, perché in realtà vive in uno stato in cui ci sono poteri, ancora forti, che lavorano contro di lui, e pure in modo pesante.

La linea che sta prendendo la vicenda, potrebbe permettere anche agli Stati Uniti di preservare la propria immagine: la Washington di Trump ha ricostruito i rapporti con Riad – intaccati da alcune scelte poco gradite ai Saud fatte dalla precedente Casa Bianca. E lo ha fatto a suon di contratti, allineamenti e creazioni di rapporti personali. La morte di Khashoggi è una questione piuttosto imbarazzante da cui Trump vuole uscire bene.

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