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Intelligence e rivoluzione tecnologica, il binomio possibile

Nelle nuove società digitali, gli organismi deputati all’Intelligence e alla Sicurezza Nazionale incontrano difficoltà maggiori, perché la rivoluzione tecnologica mette in discussione i loro tradizionali modelli organizzativi. Il problema – difficile da affrontare ma di possibile soluzione – è cambiarli senza perdere i valori della tradizione.
A crederlo è Marco Mayer, direttore del Master in Intelligence e Sicurezza della Link Campus University e docente di Conflict and Peace Building presso l’Università Luiss di Roma, che in una conversazione con Formiche.net spiega quali strategie occorrerà mettere in atto perché il settore della sicurezza possa rispondere, in futuro, a sfide sempre più complesse.

Come incide la grande rivoluzione tecnologica sulle agenzie di Intelligence?

Nelle società digitali in cui stiamo vivendo tutte le organizzazioni (pubbliche e private) si stanno profondamente riorganizzando. I vertici rispondono alle sfide dell’ambiente esterno cambiando profondamente i modelli organizzativi, la comunicazione interna ed alcuni profili della propria “cultura aziendale”. Nel nuovo contesto gli organismi deputati all’Intelligence e alla Sicurezza Nazionale incontrano difficoltà maggiori, perché la rivoluzione tecnologica mette in discussione i loro tradizionali modelli organizzativi. Mi riferisco alla rigida compartimentazione, al prevalere delle divisioni specialistiche/settoriali e più in generale alla necessità di operare attraverso segmenti non comunicanti e fortemente verticalizzati. Questo tipo di organizzazione presenta eccellenti vantaggi in termini di sicurezza e riservatezza. La grande sfida è cambiare modello organizzativo senza perdere i valori della tradizione.

Qual è, invece, su questi aspetti, il peso dei processi di globalizzazione?

La tradizionale divisione tra affari interni e affari internazionali è più sfumata per i grandi processi di globalizzazione digitale, commerciale, finanziaria e mediatica. Basta fare due esempi. Il primo è che attività cruciali quali il controspionaggio devono essere affrontati a 360 gradi. Gli Stati Uniti stanno cercando di realizzarlo sia all’interno del proprio sistema nonostante le note rivalità sia in ambito “Five Eyes”. Il secondo è che nelle operazioni congiunte – peraltro sempre più numerose e necessarie – le “garanzie funzionali” dovrebbero essere estese ai servizi collegati adeguando le legislazioni nazionali; negli ultimi anni ho sollevato pubblicamente questo tema, perché la disparità di trattamento può incrinare la fiducia tra chi opera sul campo.

Quali strategie occorrerà mettere in atto perché il settore della sicurezza possa rispondere, in futuro, a queste nuove sfide?

A mio avviso servirà agire a tre livelli: revisionare alcuni modelli organizzativi e sperimentare metodi nuovi per affrontare le potenziali minacce ibride, quali ad esempio le procedure legali per le assegnazioni delle risorse 5G o risolvere con un approccio multidisciplinare l’enigma dell’attribution dei cyber attacchi; promuovere un salto culturale all’interno delle organizzazioni e più in generale nelle attività di promozione della cultura della sicurezza rivolte ai cittadini; responsabilizzare sul serio i decisori politici. I governanti sono ossessionati dai sondaggi e dalla “tirannia del presente”, ma appaiono ignari o – peggio – indifferenti rispetto alle gravi minacce che incombono nel medio e lungo periodo.

Che cosa intende per salto culturale?

Mi limito a citare l’approccio al “V dominio” come viene definito dalla dottrina strategica, ma lo stesso discorso vale per il termine “Cyberspace” utilizzato dagli esperti Ict, “Infosfera” coniato dal professor Luciano Floridi o “Arena Digitale” che piace agli studiosi di Relazioni Internazionali. Non c’è alcun dubbio ovviamente che il “cyberspace” sia un nuovo dominio da esplorare nelle sue molteplici dimensioni, tecnologiche e non. Tuttavia puntare tutto sul V dominio può determinare un radicale errore cognitivo. Le tecnologie digitali tendono, infatti, ad avvolgere – e talora sconvolgere – la società nel suo insieme penetrando nel mondo fisico e toccando ormai tutti gli aspetti della vita quotidiana, anche i più personali. Sotto questo profilo l’espressione V dominio può rivelarsi riduttiva e fuorviante in quanto non coglie una caratteristica fondamentale intrinseca della rivoluzione digitale. Essa connette e trasforma tutti e cinque i domini attraverso processi di continua interazione.

Perché ha fatto cenno ad una maggiore sensibilità dei decisori politici?

Siamo giustamente abituati a considerare le agenzie governative di intelligence come pilastri per garantire la sicurezza nazionale, ma in epoca di globalizzazione nei Paesi democratici una loro funzione altrettanto significativa è difendere lo Stato di diritto dalle interferenze esterne. La rivoluzione digitale per le sue proprietà caratteristiche tende oggettivamente a favorire le politiche dei Paesi illiberali. Nella politica interna le nuove tecnologie costituiscono un supporto potente per controllare in profondità i comportamenti dei propri cittadini; nella politica internazionale le strumentazioni digitali facilitano la possibilità di influenzare le opinioni pubbliche dei paesi democratici e di conquistare asset, proprietà intellettuali patrimonio scientifico e tecnologico duale.
È questo l’orizzonte in cui promuovere la cultura della sicurezza – a partire dalle scuole superiori e dalle università – con l’obiettivo di rinsaldare la coesione nazionale e rilanciare i valori di libertà e democrazia che hanno ispirato la comunità euro-atlantica dopo la Seconda Guerra mondiale.

Cosa suggerisce sul piano del metodo e delle misure organizzative?

Non è il caso di entrare in dettagli, desidero semplicemente indicare una strada. Per prevenire e contrastare le minacce ibride occorrono risposte altrettanto ibride e pertanto strutture organizzative in grado di pensare ed agire in “modalità ibrida”.
Per chiarire ciò che altrimenti può apparire un mero artificio nominalistico mi consenta di ricorrere ad un esempio concreto. In questi giorni stiamo preparando una esercitazione per la XIII edizione del Master Intelligence e Sicurezza del 2019. Lo scenario della esercitazione è il seguente. Siamo in presenza di una grave minaccia alla sicurezza energetica nazionale da parte di una entità ostile non identificata. Essa punta a bloccare la realizzazione di un gasdotto di rilevanza strategica in fase di approvazione preliminare da parte delle competenti autorità.

Come si concretizza la minaccia “inventata” per pure finalità didattiche?

L’ operazione ostile si articola in 5 dimensioni fortemente integrate: individuazione di potenziali alleati in loco oggettivamente interessati a contrastare il progetto di gasdotto; attacchi informatici finalizzati alla raccolta di informazioni confidenziali e finanziarie sui decisori a livello locale, regionale e nazionale; campagne di disinformazione su media tradizionali e web; tentativi di instaurare “relazioni particolari” con politici, opinion leader, imprenditori che si reputano influenti – soggetti criminali compresi – nel territorio interessato al gasdotto; messa in atto di n misure atte a creare un clima di panico e allarme sociale.

Qual è l’obiettivo della esercitazione?

Gli allievi non sono chiamati a simulare risposte alla minaccia ibrida in quanto tale. La domanda di ricerca è un’altra: come l’Intelligence deve organizzarsi – e con quale metodo – per prevenire e/o contrastare la tipologia di minaccia ibrida descritta nell’esercitazione. In altre parole qual è il modo più efficace per far lavorare in modo congiunto (e spesso simultaneo) le diverse competenze e unità organizzative – Humint, Sigint, Osint, Big Data Analysis, CounterIntelligence, eccetera – che gli allievi hanno appreso nei moduli didattici in cui si articola il Master. Integrazione delle competenze, approccio multidimensionale e convergenza operativa sono – a mio avviso – le parole chiave per far fronte alla grande rivoluzione tecnologica che trasforma la realtà contemporanea.
Naturalmente è molto più facile simulare queste formule in un Master che metterle in pratica. Nella realtà occorre superare differenze di linguaggio, dinamiche di potere, resistenze agli approcci multidisciplinari, diverse tradizioni organizzative delle agenzie di appartenenza. In questo nuovo scenario per fortuna l’Italia appare decisamente avvantaggiata rispetto ad altri Paesi europei per la sua esperienza e per il suo efficace modello di “integrazione delle forze” e per il vasto coinvolgimento nel territorio delle comunità – italiane e straniere – nella prevenzione e contrasto al terrorismo interno ed internazionale.



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