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Per Trump Khashoggi è morto. Intanto a Riad si cerca il colpevole

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La Casa Bianca è stata la prima autorità ad aver emesso un verdetto definitivo: credo che il giornalista dissidente saudita Jamal Khashoggi sia morto, ha detto il presidente Donald Trump accettando le ricostruzioni della sua intelligence, ed è un balzo in avanti rispetto a ciò che si sa finora di ufficiale.

Khashoggi è scomparso il 2 ottobre dal consolato del suo paese a Istanbul: i turchi dicono attraverso i media – ma non in via istituzionale – di avere testimonianze audio e video di quello che è successo e affibbiano la pesante responsabilità ai sauditi (il peso è tutto nei forfait all’ultimo minuto di alcuni dei leader che avrebbero dovuto animare la Davos del deserto: tra questi anche il capo del Tesoro americano). Intanto il segretario di Stato statunitense, Mike Pompeo, che ha viaggiato tra Riad e Ankara in cerca di soluzioni, ha fatto sapere di non aver visto o ascoltato le prove in mano ai turchi. I sauditi invece negano, a secco di prove a sostegno della loro posizione, si affidano sul senso di deterrenza e rispetto (comprato e) guadagnato: nei giorni scorsi hanno fatto uscire la notizia su un’ammissione di colpa, annunciata più che altro per sondare il terreno e le reazioni.

C’è un nome da ieri: i giornali americani hanno ricevuto un’informazioni (da dove arriva? Da Riad?) che a compiere l’operazione sarebbe stato iI generale Ahmed al Assiri, vice capo dell’intelligence. Lui aveva ricevuto l’ingaggio per rapire e riportare in patria Khashoggi – e si presuppone che, dato che tutto l’intero sistema di intelligence, sicurezza e difesa nel regno è in mano all’erede al trono Mohammed bin Salman, sia stato lui a dare l’ordine che comunque consisteva, al di là dell’esito tragico, nel rapire un cittadino in territorio straniero e sottoporlo a un interrogatorio in patria sulla base della sue posizioni critiche contro il regime monarchico.

Durante l’azione a Istanbul, ad al Assiri sarebbe slittata la frizione: è uscito fuori controllo (perché? C’è dietro un sabotaggio, una qualche manina che ha voluto creare uno scenario horror e costruire un caso imbarazzante per l’erede, motore della Vision 2030 con cui l’Arabia Saudita vorrebbe emanciparsi e diventare uno stato a suo modo più moderno?). C’è stato un interrogatorio sul posto, poi un pestaggio, infine la morte e lo smembramento del corpo (si risparmia di ripetere i dettagli macabri, più o meno veri, usciti fin qui).

Al Assiri, secondo le informazioni raccolte per esempio da David Ignatius del Washington Post – giornale che pubblicava gli articoli di Khashoggi – guidava un “Tiger team” clandestino: un’unità dei servizi segreti non ufficiale creata con lo scopo di eliminare certi oppositori. E il giornalista auto-esiliatosi in Virginia, era considerato dall’ufficiale un nemico potente, molto conosciuto e seguito (oltre un milione di follower leggeva ogni suo tweet, ancora era collegato con parti dell’establishment del regno che l’erede sta cercando di asfaltare, era amico della Fratellanza musulmana, veniva ascoltato a Washington e negli uffici diplomatici che contano). Per tutte queste ragioni l’ufficiale avrebbe chiesto varie volte a bin Salman luce verde per eliminarlo.

La ricostruzione dice che il principe ereditario, a cui al Assiri faceva da consigliere, era contrario a uccidere un giornalista (e come potrebbe essere diversamente, ndr) e che il generale ha agito per suo conto, scavalcando gli ordini di testa sua e soprattutto scagionando l’erede al trono – che ha già in mano il potere nel regno – da eventuali responsabilità dirette. Inoltre il generale al Assiri è stato anche il portavoce – protagonista di interviste in fluente francese e inglese – della coalizione a guida saudita che sta combattendo in Yemen, dove Riad è accusata di condurre una campagna militare spregiudicata che sta causando migliaia di vittime tra i civili: accusarlo serve anche su quest’altro fronte?

Secondo il New York Times i sauditi avrebbero fornito a Washington un report approfondito dei fatti, vista la magnitudine del caso (che a questo punto andrebbe a coinvolgere gli alti ranghi della corte); e Pompeo ha chiesto a Trump di dare ancora qualche giorno affinché Riad concluda l’indagine interna. La Casa Bianca aspetta, ma c’è stata quell’ammissione di Trump che suona come un ultimatum. E poi alla riunione tra il capo del dipartimento di Stato e il presidente era presente anche il segretario al Tesoro, Steve Mnuchin, che una volta conclusa ha fatto sapere che non avrebbe partecipato a quel summit economico organizzato dai sauditi.

Un messaggio, forse, che si inquadra in un momento in cui le relazioni tra Washington e Riad scricchiolano più di quello che è visibile, nonostante l’amministrazione Trump abbia rinvigorito come nessuno negli ultimi dieci anni l’amicizia col regno saudita. Un paio di settimane fa, durante uno dei rally elettorali dove Trump prende la scena e va a braccio, il Prez ha detto che senza l’appoggio americano re Salman non sarebbe durato più di “due settimane”. Al presidente americano non piace la troppa disinvoltura con cui l’Arabia Saudita tesse affari con Russia e Cina, mentre non sta agendo adeguatamente – secondo Trump – per abbassare il prezzo del petrolio. Per gli americani livelli alti sono buoni, perché permettono di far lavorare gli shaler, ma al momento sarebbe bene avere costi bassi alla pompa, ossia quelli che i cittadini percepiscono in maniera più diretta, visto che tra un paio di settimane si voterà per le elezioni di metà mandato.

 



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