Il temuto contraccolpo dei mercati, a quanto pare, non c’è stato. A quanto pare: resta, infatti, l’incertezza ed il nervosismo, con la borsa impegnata in un continuo saliscendi. In negativo dopo l’apertura di Wall Street. Già nelle prime ore, l’indice Ftse-mib aveva fatto registrare un aumento dell’1,3 per cento, con un successivo rimbalzo che lo aveva portato a quota 1,83. Quindi il progressivo ridimensionamento, a seguito della presa di beneficio di molti operatori. Sebbene a guidare il listino siano stati soprattutto i titoli del gruppo Agnelli, a seguito della vendita della Marelli ai giapponesi di Calsonic Kansel, gli stessi titoli bancari erano andati bene, per poi subire un forte ridimensionamento, in linea con la successiva caduta dell’indice.
Andamento più o meno analogo degli spread. Debole, in apertura: si era toccata quota 286, contro gli oltre 300 punti della chiusura di venerdì. Ma poi le preoccupazioni avevano preso, di nuovo, il sopravvento ed il differenziale era salito rapidamente oltre i 300 punti base. Per capire esattamente l’intonazione dei mercati sarà, quindi, necessario attendere. Nella speranza che alle turbolenze interne, non si sommino quelle relative ad una situazione internazionale che non desta di stupire. Come mostra il nuovo scontro tra Russi ed Americani sui temi del disarmo.
Fermate, tuttavia, le lancette dell’orologio, vale la pena riflettere su ciò che è avvenuto, nel frattempo. Le attese della vigilia, infatti, non nascondevano le grandi preoccupazioni per la tenuta del sistema finanziario italiano. Mentre, come si diceva all’inizio, il pericolo è stato scongiurato. Un evidente paradosso. Forse l’avvertimento di Moody’s è stato considerato irrilevante? Può essere. Ma quest’ipotesi rischia di essere solo apparente. Più probabile, infatti, che i mercati si aspettassero un giudizio ancora più duro. Un outlook negativo, ad esempio. O Addirittura un doppio nocth: quella seconda “tacca” che avrebbe portato i titoli italiani nell’inferno degli junk bond: la spazzatura.
Così invece non è stato. E di conseguenza tutti coloro che considerano le Agenzie di rating una sorta di diaboliche associazioni al servizio del capitale dovrebbero ricredersi. Soprattutto quegli esponenti dei 5 stelle che non avevano esitato, quando già si profilava un intervento anticipato di Moody’s rispetto al calendario precedentemente indicato, di ricordare le loro grandi colpe: il giudizio positivo sulle banche americane, alla vigilia della grande catastrofe internazionale. Ne avevano avallato i relativi comportamenti e tanto bastava per demolire la loro reputazione. Quindi nonchalance rispetto al possibile verdetto e vero e proprio atto catartico.
La verità, almeno, nel caso italiano è ben diversa. Spiace dirlo, ma l’analisi condotta dall’Agenzia, a motivazione del suo giudizio, è di gran lunga più penetrante rispetto ai lavori della Commissione europea e degli stessi Apparti tecnici del ministero dell’economia. Le luci ed ombre che traspaiono da quell’analisi offrono, infatti, un quadro ben più realistico della situazione del Paese. Mettono in luce le difficoltà relative alla dinamica della finanza pubblica, ma al tempo stesso non trascurano i punti di forza di un sistema economico che non ha nulla a che vedere con le situazioni di altri Paesi europei. Non solo la Grecia, ma la stessa Francia.
“L’outlook – stabile è scritto nel documento – riflette, in linea di massima, un rischio bilanciato che si esprime nella valutazione Baa3. Nel giudizio di Moody’s, l’Italia presenta dei punti di forza che bilanciano le debolezze delle prospettive di finanza pubblica. Essi includono un’ampia e diversificata economia, una solida posizione estera con un surplus sostanziale delle partite correnti della bilancia dei pagamenti e un’equilibrata posizione sul fronte degli investimenti esteri. Le famiglie italiane hanno importanti riserve che rappresentano una garanzia contro possibili shock esterni e sono una potenziale risorsa per eventuali interventi da parte del governo”.
In estrema sintesi, l’accento è rivolto soprattutto sulla forza dell’economia reale. Sulla capacità di un sistema economico di produrre ricchezza, nonostante le gravi condizioni in cui versa una Pubblica Amministrazione che ha, da tempo smarrito, il senso della sua vera missione. È il vero dualismo della società italiana, che si riflette nella contraddizioni storiche del Paese. Un Nord che cresce, nonostante tutto, il resto dell’Italia che arranca. E cresce a tal punto da determinare uno squilibrio macroeconomico, che si esprime nel forte attivo dei conti con l’estero, che una politica economica, finora inadeguata, non è riuscita e non riesce a correggere.
Se, nelle discussioni con la Commissione europea, si fosse partito da questo punto di analisi, invece di impiccarsi sul solo dato aritmetico del rapporto deficit Pil, la discussione sarebbe stata, fin dall’inizio, ben più proficua. In proposito va ricordato che entrambi i parametri – rispetto delle regole fiscali e squilibri macroeconomici – rilevano ai fini del giudizio complessivo da parte dell’Europa. Sono entrambi sanzionabili seppure con modalità e tempi diversi.
Si poteva, pertanto, sollevare il problema per individuare quale fosse la priorità da perseguire. Se era necessaria una stretta fiscale maggiore che avrebbe reso ancor più precario l’equilibrio macroeconomico. Oppure partire da questo retroterra per legittimare una manovra più espansiva, al fine di contenere, in prospettiva, il surplus delle partite con l’estero. E di trasformare l’eccesso di risparmio, che si riscontra nella realtà italiana – le riserve familiari di cui parla il documento – in maggiori investimenti e quindi in un più elevato tasso di crescita.
Ma allora perché giungere, comunque, al downrating? Per il semplice fatto che la “manovra del popolo” non risponde all’esigenza prioritaria di un rilancio dello sviluppo, che avrebbe ampiamente giustificato una deroga dai parametri del fiscal compact. Al contrario, è soprattutto redistribuzione del reddito. Cosa buona e giusta, quando si hanno le risorse disponibili ed il tasso di crescita dell’economia è in linea con quanto accade negli altri Paesi concorrenti. Ma diventa un vero e proprio suicidio, quando si verifica l’opposto e si è costretti a indossare la maglia nera, come avviene per l’Italia nei confronti dell’Eurozona.