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Israele e Giordania, la pace ostile tra propaganda e guerra dell’acqua

Nel 1994 Israele e Giordania firmano un trattato di pace: relazioni diplomatiche, definizione dei confini, collaborazioni economiche e cooperazione nel campo idrico. L’annesso 2 al trattato prevede anche una concessione delle terre di proprietà privata israeliana nelle zone di Naharayim/Baqoura e Tzofar/Al-Gharm a Israele per 25 anni, che la Giordania ha annunciato non rinnoverà. L’annuncio avviene due anni dopo un grande accordo di 10 miliardi di dollari tra Israele e Giordania per la costruzione di un oleodotto che nel 2020 porterà gas al Regno Hashemita.

Netanyahu ha offerto di negoziare, ma il timore è che la tensione con la Giordania aggravi la crisi degli ultimi anni in conseguenza alle sommosse sul Monte del Tempio/Spianata delle Moschee, di cui il Regno di Giordania è ufficialmente protettore. Si parla di pressioni interne esercitate sul Re Abdullah per mettere fine alla collaborazione con gli israeliani. Il Regno di Giordania, tuttavia, ha sempre operato una politica pragmatica verso Israele, che fa sperare in scelte più aperte alla cooperazione.

Il Regno di Giordania, creato dagli inglesi, è governato da una famiglia di origine saudita e comprende una popolazione di più di 9 milioni di abitanti. Dopo l’occupazione della West Bank e di Gerusalemme nel 1949, la Giordania ha esteso la cittadinanza agli arabi di Palestina. Oggi non si sa quanti siano i palestinesi di cittadinanza giordana, e non ci sono dati ufficiali poiché se dovessero essere la metà o più della popolazione (secondo varie stime), allora il Regno di Giordania diventerebbe la patria palestinese. Ci avevano già tentato a fine anni ’60 i combattenti dell’Olp, con continue guerriglie e anche due attentati contro il Re – la Giordania rispose con la Guerra di Settembre Nero nel 1970 e varie altre operazioni fino a luglio 1971, che si conclusero con l’espulsione dell’Olp dal territorio giordano.

Le difficoltà che affronta la monarchia tradizionalmente vicina agli Stati Uniti e aperta verso Israele sono varie: il crescente potere dei Fratelli Musulmani che minaccia la stabilità del governo, la pressione politica della popolazione palestinese, l’immigrazione di più di due milioni di profughi dalla Siria e dall’Iraq, una grave mancanza di risorse idriche.

La pace tra Israele e Giordania ha apportato mutui benefici. Oltre all’afflusso di turisti verso il territorio giordano, le collaborazioni economiche e scientifiche hanno portato discreta prosperità e molte opportunità di lavoro. Con il trattato di pace sono state stabilite in Giordania cinque Qualified Indutrial Zones, parchi industriali i cui prodotti possono essere esportati alle stesse condizioni previste dall’accordo Israele-USA, quindi senza tasse.

Con il principio della Guerra in Siria, la Giordania ha dirottato il trasporto di merci attraverso Israele, che prima invece attraversava il territorio siriano. Le collaborazioni in campo di sicurezza sono intensificate dal 2015: Israele ha fornito elicotteri cobra all’aeronautica giordana e i due Stati hanno inziato un progetto congiunto di produzione industriale e logistica che prevederà l’afflusso di merce prodotta in Giordania attraverso un passaggio speciale in territorio israeliano e sbocco sul Mediterraneo.

Dal 2014 però le relazioni si fanno più tese sullo sfondo dell’operazione militare Margine Protettivo e negli anni successivi peggiorano in occasione degli scontri sul Monte del Tempio/Spianata delle Moschee. La Giordania ha una casa regnante saudita, una popolazione originaria di identità beduina-tribale e una parte preponderante di origine palestinese, che costituisce una parte importante del bacino sociale dei Fratelli Musulmani.

L’organizzazione islamista ha sempre sostenuto la casa regnante contro ogni forza che abbia tentato di rovesciare il regime: contro le forze laiche socialiste, contro i palestinesi dell’Olp e contro i nasseriani. Ma Re Abdullah II si è reso conto negli ultimi quindici anni di come i rapporti non siano più così idilliaci. I Fratelli Musulmani si sono rafforzati dopo la vittoria di Hamas a Gaza, hanno boicottato le elezioni del 2013 e sostenuto le proteste contro il regime. Le organizzazioni salifite-jihadiste costituiscono un ulteriore problema di stabilità nel Paese (Abu Musab al-Zarqawi, leader di AIQ, al-Qaeda in Iraq, da cui è nato Isis, era giordano). I vari gruppi sono stati sempre critici verso il regime per la sua apertura a Israele e il discorso anti-sionista si è fatto più centrale nelle campagne anti-israeliane per la difesa di al-Aqsa. Nel 2016 i Fratelli Musulmani sono banditi, le sedi chiuse e le proprietà confiscate, mentre si crea una nuova organizzazione con lo stesso nome e con una politica filo-regime. L’ultima cosa che il Re vuole è una campagna militante che accusi il governo e il monarca di collusione con il nemico sionista o di non adempiere al proprio ruolo di difensore della Spianata delle Moschee di fronte ai presunti attacchi israeliani.

Il clima anti-israeliano non è proprio solo dei circoli islamisti, ma è diffuso anche tra nazionalisti e laici, che vedono nella fine del periodo di concessione delle terre un’occasione per curare le ferite delle varie vittorie israeliane. L’anti-normalizzazione contro Israele è una politica più o meno ufficiale di quasi ogni governo arabo, con le numerose eccezioni dettate da politiche pragmatiche.

Il giornale giordano a-Dustur riporta diversi editoriali che appoggiano la decisione del Re Abdullah II come una riaffermazione della sovranità giordana contro le politiche arroganti e illegali di Israele. Le opinioni lodano la decisione giordana per la fermezza politica, la dimostrazione di forza e suggeriscono che la lobby ebraica dichiarerà una guerra mediatica contro la Giordania. Le pressioni al governo per adottare politiche anti-israeliane vengono da diverse fonti, sia parlamentari, sia organizzazioni professionali.

Lo stesso giornale riporta però una notizia importante, che è il finanziamento di due grandi centrali per il riciclaggio delle acque da parte di Arabia Saudita e Gulf Cooperation Council. Le due centrali saranno costruite nelle aree di Talifeh (in prossimità delle terre oggetto della concessione) e Ma’an (a nord di Aqaba). I progetti dimostrano la crisi di risorse idriche del Regno.

L’acqua che Israele fornisce alla Giordania secondo gli accordi non basta più, così come non bastano le risorse idriche locali. La tecnologia sviluppata dal Regno Hashemita non è sufficiente a far fronte alla richiesta di acqua, con una popolazione che è cresciuta a dismisura negli ultimi quattro anni per l’afflusso di profughi.

Annunciare un’eventuale accordo con Israele non farebbe del bene a un regime precario che già deve gestire molti conflitti interni ed è minacciato da vari gruppi ideologici. La scelta di non prolungare la concessione d’uso delle terre, che comunque sono di proprietà privata israeliana, può essere una mossa che vuole placare le pressioni interne, ma che non necessariamente comporti una svolta anti-israeliana. La Giordania, con Re Hussein e con l’attuale Re Abdullah II ha una politica pragmatica verso lo Stato ebraico: un linguaggio ostile a Israele, due guerre, e un progressivo avvicinamento con una fiorente collaborazione. Può essere che la decisione di Abdullah II sia dettata dalla stessa logica: placare le pressioni interne con un atto che agli effetti pratici non avrà conseguenze. La Giordania, come gli altri Paesi della regione, ha l’interesse di collaborare con Israele su tutti i fronti. Israele per contro può continuare a vivere con un’ostilità ideologica che però non impedisce decisioni pragmatiche, soprattutto ora che condivide con gli Stati arabi la necessità di combattere le politiche aggressive dell’Iran.

Da una parte la pervasiva ideologia anti-sionista, pilastro del linguaggio politico di tutti e delle convinzioni di molti, dall’altra l’evidenza dei benefici della cooperazione con l’entità sionista. I risultati potranno dare un’idea di come sarà il nuovo Medio Oriente che si andrà assesstando.



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