Nel volgere di pochi giorni abbiamo ascoltato le parole di due grandi vecchi che non hanno mai mancato di affermare la loro “verità”, anche se scomoda o irriverente.
Da una parte Andrea Camilleri (classe 1925), il padre del commissario Montalbano. Dall’altra Giampaolo Pansa, la penna acuminata e irregolare del bestiario. Entrambi parlano dell’Italia di oggi e non le mandano a dire.
Se lo scrittore siciliano, ormai privo della vista, si dice “fortunato ad essere cieco, così non vedo certe facce ributtanti che seminano odio”, il giornalista piemontese denuncia “il disordine caotico nel quale sta immersa l’Italia” e “la babele che ci ossessiona ogni giorno”.
Se il primo si augura di non “morire con il pessimismo, voglio morire con la speranza che i miei nipoti vivano in un mondo di pace. Il futuro sono i giovani, non siamo più noi ad avere in mano il futuro”, il secondo non si nasconde: “Vivo sempre di più nel timore che il nostro disordine sfoci in una guerra civile, dapprima soltanto politica, poi con strumenti pericolosi e definitivi, come le armi. Non credo che esista un’alternativa. Se non quella di un colpo di mano di qualche potere militare, come i Carabinieri o la Guardia di Finanza”.
Se Camilleri, dinanzi al vento dell’odio che spira nel Paese afferma che “stiamo perdendo la misura, il peso della parola: le parole sono pietre, possono trasformarsi in pallottole”, Pansa va giù ancora più duro: “Prima di essere distrutti dal disordine che diventerà sempre più infernale, il male minore sarebbe accettare la supremazia di un uomo solo. Ma chi può essere costui? Non c’è alcun dubbio: Matteo Salvini… Si è dato persino un grado o un soprannome: il Capitano”.
Sin qui le parole venate dalla preoccupazione e dal pessimismo che non si possono liquidare come ombre della tarda età. La verità è dura da digerire, ma odio e disordine sono due elementi che caratterizzano la nostra vita pubblica. Solo uno sguardo a dir poco indulgente potrebbe descrivere un’Italia segnata dalla concordia sociale e dall’ordine civile e repubblicano.
La cronaca politica, e non solo quella, ci restituiscono ogni santo giorno, la promessa di una resa dei conti fra popolo ed élite, fra ultrapoveri e straricchi, fra classi disagiate e classi dirigenti, fra poveri italiani e poveri stranieri, fra bianchi e neri, fra movimenti e partiti, fra indifesi e garantiti. Il dialogo e l’ascolto, a tutti i livelli, sono diventati merce rara. Il passato è come una brutta malattia di cui liberarsi al più presto e con le spicce, perché può infettare il nuovo che avanza. Chi cerca di argomentare con moderazione è guardato come un marziano. Chi si rifiuta di alzare la voce è immediatamente fuori gioco. Chi si dichiara moderato è irrimediabilmente bollato come un pezzo da antiquariato. Tutti vivono, anzi viviamo, ripiegati sul presente. Insomma, una degenerazione del discorso pubblico che mal si addice a un Paese che è ancora, salvo sorprese, dalla parte della democrazia.
Dunque, le provocazioni e/o i timori dei due Grandi Vecchi non possiamo archiviarli con un moto di sufficienza o con un’alzata di sopracciglio. Purtroppo c’è del vero in quello che denunciano e saremmo degli irresponsabili se non individuassimo, da subito, degli anticorpi. Primo fra tutti il continuare a credere nella nostra democrazia. Fragile sì, ma è la nostra. E nessuno ce la può garantire per sempre. Perciò, da cittadini, cominciamo a dire a tutti i nostri politici, corresponsabili dell’odio e del disordine, che saremo sempre più severi nel giudicare il loro modo di interpretare la democrazia. A cominciare dal presupposto che la democrazia pretende procedure democratiche. Anche quando si conquista il 60 per cento dei consensi nei sondaggi, non si può e non si deve vantare l’appoggio di tutti gli italiani. E soprattutto tocca proprio a loro respingere, per primi, la dittatura della maggioranza che in ogni momento può trasformarsi in una dittatura e basta.
Se poi qualcuno di loro sogna un’Italia schierata con le democrazie illiberali di Putin o di Erdogan, sarà meglio che freni gli ardori giovanili.