Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha avuto una conversazione telefonica con il suo omologo cinese, Xi Jinping. Lunga e “good” l’ha definita l’americano, seguendo la classica scelta semantica semplice per coprire la più ampia fetta dei suoi cittadini. I contenuti del colloquio sono sostanzialmente riservati – ed è di per sé singolare, perché molto di quel che passa dall’amministrazione finisce rapidamente spifferato ai giornali, ma sulla Cina c’è particolare attenzione (oppure è solo ancora presto). Trump ha detto su Twitter che c’è stata particolare enfasi sul commercio, e che si è trattato di un antipasto per il faccia a faccia che i due leader avranno a fine mese in Argentina, a latere del vertice G-20.
Secondo quattro fonti della Bloomberg, il presidente americano avrebbe richiesto ai suoi uomini di preparare la base per un accordo commerciale da presentare a Xi nel loro incontro, che dunque secondo questa informazione potrebbe diventare più operativo e di sostanza da come fin qui era stato annunciato. Trump si sarebbe convinto nel cercare questa via proprio dopo aver parlato al telefono con Xi.
È un comportamento abbastanza usuale dell’amministrazione americana, dove il gioco del bastone&carota tipico dei business dealer come Trump è diventato tattica negoziale su dossier internazionali dal profondo valore politico. Sabato il segretario di Stato, Mike Pompeo, spiegava in televisione come e perché gli Stati Uniti stavano adottando la linea dura contro la Cina, domenica il presidente telefona al suo omologo cinese per preparare un bilaterale in cui strappare un accordo (che ha un valore strategico ma anche anche politico-elettorale visto quanto capitale politico la Casa Bianca ha investito sull’argomento Cina; “Loro vogliono fare un accordo”, ha detto Trump domenica sera, poche ore dopo la telefonata, durante un rally elettorale Maga a Columbia, in Missouri, per esempio (e tutto il pubblico in giubilo). In altre circostanze, viceversa, era il presidente a prendere posizione più ruvide, mentre i delegati americani incontravano le controparti cinesi in negoziati a tema commercio.
Il presidente Trump preferisce avere con i suoi pari “frequenti e dirette comunicazioni”, dice la televisione di stato cinese, e la Xinhua (agenzia stampa governativa di Pechino) scrive che l’americano ha detto a Xi di guardare avanti verso il loro incontro personale in cui discutere tutte le questioni principali.
La telefonata è un segnale positivo che potrebbe bloccare l’escalation di tensioni tra i due paesi sfociate nella trade war, oppure è un modo per spingere i mercati alla vigilia delle elezioni di Midterm? Lo chiediamo a Carlo Pelanda, professore e coordinatore del dottorato di ricerca in geopolitica e geopolitica economica dell’Università Guglielmo Marconi di Roma. “Lo sfondo è quello di una guerra totale tra America e Cina, e non è solo una decisione di Trump, ma è una scelta degli Stati Uniti che risale per lo meno al 2013. E dunque indipendentemente da chi sarà il presidente americano, noi nei prossimi anni vivremo un conflitto Pechino-Washington del tipo Roma-Cartagine”.
“Ma – aggiunge Pelanda – all’interno di questa guerra ci saranno molte tregue, col fine di non destabilizzare troppo il mercato globale. Questo attuale non possiamo ancora definirla una tregua, ma nel momento in cui Trump deve arrivare al 6 novembre (data delle Midterms, ndr) senza distruggere il mercato e la catena del valore, lui ha detto qualcosa del tipo ‘va bene parliamo’. E non dimentichiamo che un mese e mezzo fa, invece, era stata la Cina a rifiutare un incontro”.
“Adesso – dice Pelanda a Formiche.net – la priorità degli Stati Uniti è soffocare lo sviluppo tecnologico cinese: il come di questo processo lo stiamo già vedendo: negli Stati Uniti gli studenti cinesi non avranno più accesso a dottorati di ricerca che toccano tecnologie critiche, così come le aziende cinesi non hanno più possibilità di entrare in certe aziende strategiche. Per quel che riguarda invece dazi, gli strateghi americani devono capire bene quanto sono soffocanti. Devono capire se questo basta al mercato per non tirar giù le borse, perché se sì gli Usa ci staranno. E magari il 1 gennaio 2019 non alzeranno nuovi dazi”.
Fondamentalmente, spiega Pelanda non c’è niente di particolarmente eccitante in questo momento: l’unico motivo di questa eccitazione, secondo il professore, è da ricercare nel calendario dei fondi, che le loro annualità a novembre e dunque gli attori del mercato potrebbero aver chiesto a Trump di poter finire l’anno con un up entro senza tonfi entro il 30 novembre, in modo da poter dare ai clienti nei propri portafogli qualcosa di positivo, un’iniezione di fiducia, in un anno anche difficile. “Gli attori di mercato guardano con attenzione a trovare un punto di equilibrio in cui si metta sotto pressione la Cina, perché nessuno vuole l’impero cinese, una nuova Germania nazista che prende il potere dell’economia globale, ma senza fare troppi danni perché se Pechino affonda, allora affondiamo tutti”.
L’elemento centrale sta nel rapporto tra Casa Bianca e Mercati. Portare la sconfitta della Cina al punto in cui non la si destabilizza totalmente. Perché a quel punto, spiega Pelanda, si entrerebbe in una terra incolta: un cambio di regime? “La Cina deve essere pressata e frenata ma senza azioni distruttive, per questo prevedo la strategia del boa”, ossia un lento soffocamento.
“E in effetti – aggiunge il professore – se si guarda alle recenti misure interne cinesi si capisce che Pechino è molto pessimista sul proprio futuro, e forse teme di non farcela. Oppure ha accettato di mettere sul tavolo la Corea del Nord”. In che senso? “La Cina ha un problema: non sa che bastoni contrapporre a quelli americani, e dunque potrebbe usare la sua influenza prevalente su dossier come la Corea del nord. I cinesi la metteranno nel pacchetto, potrebbero dire a Trump qualcosa tipo ‘lasciaci vivere, e ti facciamo fare la bella figura di aver messo in moto un sistema positivo su Pyongyang'”.