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100 anni dalla Grande guerra. Ecco cosa ricordare oggi

Sergio Mattarella

La celebrazione della fine della Prima Guerra Mondiale è benvenuta e doverosa, ma non deve rimanere un fatto retorico e di autocompiacimento per una vittoria conquistata con straordinari sacrifici e che davvero costituì una sorta di crogiolo per far maturare un sentimento e una consapevolezza diffusa di unità nazionale.

Molto di più, un anniversario di questa portata dovrebbe stimolare una riflessione su quella guerra e in generale sulla guerra, per analizzarne la genesi e le motivazioni e per proiettarne gli esiti sulla fase storica in cui stiamo vivendo e nel quadro geostrategico attuale, sul quale possiamo e dobbiamo incidere.

Gli eventi che dalla “Belle époque” portarono le potenze europee, in modo quasi ineluttabile, all’immane scontro che ne determinò infine la perdita del ruolo dominante nella politica globale, devono farci riflettere per evitare di ripercorre passi verso un tragico destino. In Europa gli oltre settanta anni di pace, propiziati dalla Nato e dalla nascita e dalla crescita dell’inedito esperimento della progressiva integrazione europea, hanno indotto nell’opinione pubblica la convinzione ormai radicata che, per lo meno in questo spicchio di mondo, la guerra sia un fenomeno relegato alla storia, meritevole di studio da parte di accademici ed analisti, ma definitivamente scomparso dall’orizzonte dei futuri possibili. Temo che sia un’illusione pericolosa, che proprio la genesi della Grande Guerra dovrebbe aiutarci a mettere in discussione.

Nel 1913 comparve una serie di articoli sul Times (che allora tutti consideravano autorevole almeno quanto la Bibbia) in cui si spiegavano i motivi per cui un conflitto in Europa tra le grandi potenze era ormai impossibile: troppo stretti i legami economici fra i vari paesi, sintonie politiche intrecci di dinastie, come si poteva pensare che si potesse giungere ad uno scontro armato? Forse nelle lontane terre coloniali qualche disputa poteva essere possibile, ma nulla che avrebbe potuto mettere a rischio le ‘magnifiche sorti e progressive’.

Era invece, come viene imaginificamente definita da autorevoli analisti, una marcia di sonnambuli, incapaci di vedere i rischi crescenti e i segnali che provenivano dall’interno delle società, in primis dall’eterogeneo insieme dell’impero Asburgico. Da episodi minori di incomprensione, si passò ad una diffidenza montante, a sporadici incidenti, fino all’attentato di Sarajevo, dopo il quale anche i rimanenti margini per una ricomposizione vennero progressivamente erosi, con ultimatum che avrebbero portato alla tragedia finale.

È così difficile oggi accorgersi di segnali analoghi? Dispute in terre lontane (?) come la Siria, con incidenti più o meno voluti (rammentiamo l’abbattimento del Sukoi 24 russo da parte degli F16 turchi), esercitazioni di crescenti dimensioni e complessità, con scenari chiaramente riconducibili ad una situazione di crisi con l’avversario storico; conflitti più o meno ‘congelati’, come quello in Transnistria e quello in corso nell’Ucraina sudorientale, dopo l’occupazione/annessione da parte russa della Crimea.

E all’interno della famiglia occidentale il riemergere di tensioni localistiche con minoranze etnico linguistiche che reclamano gradi più o meno ampi di autonomia, senza parlare del ribollire delle tensioni nei Balcani Occidentali. Sono tutti segnali che presi singolarmente appaiono gestibili, ma la cui sommatoria genera una complessità non facile da affrontare, soprattutto in un periodo come questo, in cui si teorizza di sovranismo, forse perché si ha il pudore di non usare il termine nazionalismo.

Gli studiosi del Primo Conflitto Mondiale, per il periodo che condusse alla deflagrazione, hanno coniato l’espressione “marcia dei sonnambuli”, inconsapevoli di camminare su uno stretto sentiero ed incapaci di fermarsi prima di cadere nel baratro. Le celebrazioni del centenario della fine della guerra, dovrebbero ricordarci il prezzo pagato per quella marcia e farci riflettere su come conseguire gli obiettivi politici desiderati usando strumenti diversi dalle armi. Siamo ancora in tempo per fermarci in questa rinnovata “marcia di sonnambuli” e la prima cosa che serve è una cultura storica che diventi consapevolezza politica.



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