Portate una sciarpa un po’ vistosa, madamin torinesi, ma senza esagerare, mi raccomando. Niente bandiere. Non serve. Torino, stamattina, è già la bandiera d’Italia. Finora ha trionfato chi la vorrebbe ripiegata su se stessa, chiusa in un cassetto, sbeffeggiata da troll urlanti che vomitano il loro risentimento contro il mondo, l’Europa, le élites.
Torino, oggi, si distende come uno stendardo multicolore in Piazza Castello. Rigorosa e regolare, come la sua borghesia professionale, che riprende voce e coraggio, fa necessaria violenza alla propria naturale ritrosia al chiasso e all’apparire, e scende per strada. Lo fa con una trama e un ordito che riprendono lo schema romano delle sue vie porticate, lo fa intrecciando cardo e decumano del capitale industriale e del lavoro operaio.
La Torino pragmatica e concreta chiede pragmatismo e concretezza, cura necessaria dopo la sbornia ideologica del giacobinismo sfascista, dell’illusione riformatrice diventata pauperismo d’accatto e superstizione antiscientifica. Torino non ce l’ha con qualcuno in particolare, perché sa che in quell’ingenua trappola del “cambiamento” sono caduti in molti, in troppi. Quindi stamattina scende in Piazza Castello per se stessa e per il Paese, non contro i vandeani dell’antimodernità.
Non contro chi non ha neanche il coraggio di ammettere il proprio banale, cieco e becero fanatismo. Non contro chi si nasconde dietro la patetica scusa dell’ennesima “analisi costi-benefici”, foglia di fico della propria nudità d’argomenti. Sono politici raccogliticci, accozzaglia di parvenu di quart’ordine intellettuale che pretende di discettare su complessi modelli econometrici, ma non conosce i gradi di un angolo giro. Ma non sarebbe elegante farlo notare stamattina.
Non sarebbe torinese, insomma. Stamattina si va in piazza a ribadire il diritto di Torino al futuro, senza schiamazzi e senza palchi: un po’ perché non c’è stato tempo, un po’ perché non c’è stata opposizione organizzata, e perché i partiti che dovevano interpretare e organizzare la difesa civile contro i dissennatori medievali e il loro codazzo infingardo di maghi e fattucchiere, si sono squagliati come poltiglia dopo il disgelo. E allora è toccato alle madamin torinesi vincere la sabauda ritrosia per le piazzate e organizzare una voce collettiva, che dicesse il minimo essenziale, l’epsilon di buon senso piccolo a piacere, l’essenziale monosillabo della volontà e della responsabilità, un semplice e minimalista “#Sì”.
Monosillabo olofrastico, per quelli che hanno studiato e non hanno bisogno di millantare, ma trasformato in hashtag, comme-il-faut, per ribadire d’essere pienamente padroni della modernità dei mezzi e dei linguaggi. Perché la velocità di quel treno negato e respinto non è un capriccio borghese, o la cervellotica fissazione di burocrati insensibili. La velocità, per Torino e l’Italia tutta, non è il rapporto tra costi e benefici, ma fra passato e futuro, fra paura e speranza. Perché passano ancora lenti i treni per Tozeur, e Torino oggi non prepara più rifugi, ma nuove astronavi per viaggi interstellari.