“Sono e resto lontanissimo da Matteo Renzi, ma in caso di governo politico, quindi non del Presidente, avrei preferito lui come premier”. È la tesi di Goffredo Bettini, funzionario di partito, già deputato e senatore dei Democratici di Sinistra e del Partito Democratico. Bettini, di ritorno nella Capitale dalla full immersion a cui si è dedicato negli ultimi tempi per chiudere il suo prossimo libro, dedica pillole di saggezza a ciò che avrebbe preferito per l’Italia e per il partito.
Per tentare di uscire dall’impasse post elezioni, “inizialmente avrei preferito un governo del Presidente, che si sarebbe dovuto andare a cercare la sua maggioranza in Parlamento”, con una data di scadenza bene in vista. Tra i sei e i dodici mesi, osserva il ‘padre spirituale’ dell’Auditorium di Roma, e con in bell’evidenza un obiettivo certo e preliminarmente quantificato: ovvero realizzare solo alcuni specifici punti programmatici, individuati nel campo dell’economia e sulla riforma elettorale. E in seguito, proprio in virtù di quel bagaglio, andare così al nuovo voto e misurarsi con i desiderata degli elettori.
“Però dico anche – è la seconda parte del suo ragionamento – che se il partito avesse deciso (come poi ha fatto) di convergere verso un governo non del Presidente, ma con una maggioranza spiccatamente politica con il centrodestra, per me a quel punto l’unica cosa che poteva effettivamente dare una spinta verso ciò che si aspettano gli elettori, era di farlo presiedere a Matteo Renzi”. Un’ammissione che Bettini fa con schiettezza, ma legandola ad una precisazione specifica, ovvero sottolineando con fermezza di mantenere verso il sindaco di Firenze “tutte le mie differenze, in quanto su moltissimi temi sono abissalmente lontano da lui”.
Ma, ed è la cifra del suo ragionamento, di fronte ad un’emergenza di tale portata ed estensione sul governo del Paese, e guardando ai rischi che uno stallo del genere poteva provocare, “penso che in questo momento Renzi sia tra i democratici quello che può raccogliere maggiori consensi e avere anche qualche chanches di fare delle cose utili”.
Per queste ragioni rileva che transitare da un governo “di combattimento imperniato sul Partito democratico e contro la destra (che tutto il gruppo dirigente ha sostenuto, tranne pochi tra i quali il sottoscritto) ad uno di alleanze, mi pare una scelta politica temeraria e di scarsa stabilità”. In quanto offrirebbe lo spunto a un certo senso di confusione interno ai democratici, che ha il suo punto cruciale nel fatto di aver “scambiato una sconfitta elettorale con una mezza vittoria”. E’su quella contraddizione di fondo non ancora sanata nella direzione nazionale di ieri che sta in queste ore nascendo l’esecutivo Letta. Nella consapevolezza che, al netto di nomi, provenienze dei futuri ministri e programmi da condividere, potrebbe andare in scena l’ennesimo atto di cui il Pd non saprebbe poi dar conto ai propri elettori. Anche se, al momento, le sorti del Paese vengono prima del redde rationem interno.
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