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Una vita fuori dall’ordinario. Washington saluta George H. W. Bush

Si sono tenuti oggi a Washington i funerali del quarantunesimo presidente americano, George H. W. Bush, scomparso sabato scorso all’età di novantaquattro anni.
Molte le espressioni di cordoglio. Secondo il figlio Jeb e l’ex segretario di Stato James Baker “George H.W. Bush ha vissuto una vita di straordinaria pienezza come leader, politico, funzionario, eroe, amico e padre di famiglia”. Anche per il presidente americano, Donald Trump “George H. W. Bush ha condotto una vita lunga, di successo e bellissima […] Era un uomo veramente meraviglioso e ci mancherà”. L’ex senatore, Alan Simpson, avrebbe pianto, scrivendo l’elogio funebre dell’amico. Insomma, Washington si ferma, per celebrare una parte della sua Storia. E per fare forse anche un bilancio del suo passato.

Esponente di una famiglia antica e potente, Bush diede avvio alla sua attività politica nel 1967, entrando alla Camera dei Rappresentanti. Da allora, la sua carriera conobbe una rapida ascesa. Nel 1971, fu nominato ambasciatore statunitense presso le Nazioni Unite. Poco dopo, – nel mezzo dello scandalo Watergate – Richard Nixon gli offrì la presidenza del Partito Repubblicano. Attraversò indenne quel periodo tumultuoso, tanto da diventare una sorta di vero e proprio astro nascente dell’Elefantino. Fu infatti nominato ambasciatore in Cina e successivamente addirittura direttore della CIA. Forte di questo curriculum, iniziò ad accarezzare l’idea di correre per la Casa Bianca. Ma a mettergli i bastoni tra le ruote ci pensò Ronald Reagan.

Nel 1980, l’ex governatore della California si era candidato alla nomination del Partito Repubblicano e lo stato maggiore dell’elefantino gli oppose proprio Bush. Vicino alle correnti moderate, l’ex direttore della CIA tentò di fermare l’avanzata della destra reaganiana. In questo senso, propose una politica estera relativamente cauta e – in economia – definì spregiativamente le idee liberiste di Reagan come “Vodoo Economics”. Gli andò male. Sostenuto dagli evangelici e da molti democratici delusi, l’ex governatore riuscì ad ottenere la nomination repubblicana e successivamente la stessa Casa Bianca, scegliendo comunque Bush come proprio vice (in un’ottica di riunificazione del partito).

Durante gli otto anni di vicepresidenza, Bush tenne un profilo piuttosto basso, non rinunciando tuttavia ad occuparsi di politica estera. Ma il desiderio di arrivare nello studio ovale non si sopì. E l’ex direttore della CIA ci riprovò infatti nel 1988.

Nonostante lo scetticismo della destra evangelica, quell’anno Bush riuscì finalmente a vincere la nomination repubblicana e a sconfiggere il democratico, Michael Dukakis in sede di General Election. Fu una campagna elettorale a suo modo storica, che mise in luce chiaramente la scaltra spregiudicatezza di questo personaggio: Bush non rinunciò infatti a colpire il debole avversario attraverso una strategia venefica, fatta di trucchi, illazioni e colpi bassi. Una strategia efficacissima che gli permise alla fine di raggiungere la tanto agognata stanza dei bottoni.

Da presidente, nutrì una profonda predilezione per la politica estera. Un ambito in cui ottenne effettivamente buoni risultati. Non solo concluse con successo la Guerra Fredda ma uscì anche vittorioso dalla guerra del Golfo, tanto da essere celebrato in parata a New York nel 1991. Con simili traguardi, la sua rielezione sembrava scontata. Ma le cose andarono diversamente. E a tradirlo fu l’economia.

Complice una forte crisi, Bush (contravvenendo a una promessa fatta in campagna elettorale) si trovò costretto ad aumentare le tasse. Fu così che, alle presidenziali del 1992, venne inaspettatamente sconfitto dal giovane governatore dell’Arkansas, Bill Clinton, che lo accusò di interessarsi troppo agli esteri, ignorando i bisogni concreti degli americani. Il presidente uscente scontò sostanzialmente il malcontento economico, l’astio degli evangelici (che non lo consideravano abbastanza allineato sui temi eticamente sensibili) e la candidatura del miliardario Ross Perot (una sorta di Trump ante litteram che sottrasse voti soprattutto al Partito Repubblicano).
Negli anni successivi, Bush si è allontanato dalla politica attiva. Ha sostenuto la candidatura di suo figlio, George Walker, alla Casa Bianca, pur non rinunciando a criticarlo per le sue politiche neocon sulla guerra in Iraq. Col tempo, il vecchio ex presidente ha espresso inoltre forti perplessità nei confronti di Donald Trump, allineandosi in questo all’establishment repubblicano che considerava (e considera ancora) il miliardario una sorta di eretico da espellere. Anche in virtù di ciò, nel 2016, diede il suo endorsement alla candidata democratica, Hillary Clinton.

Dopo Nancy Reagan e John McCain, con George H. W. Bush se ne va un altro pezzo di Storia americana. Un personaggio grande e controverso, scaltro e spregiudicato. Un politico accorto e aristocratico, che ha avuto il singolare (e sfortunato) destino di sprofondare dagli allori del trionfo nella polvere dell’anacronismo. Lui, il vincitore della Guerra Fredda, di quella guerra è rimasto “prigioniero”, restando invischiato in logiche superate che lo hanno negativamente consacrato ai fasti di un establishment oggi sempre più sotto attacco. Bush, insomma, è stato un uomo del suo tempo. Un tempo forse irrimediabilmente tramontato.

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