In un mondo sempre più connesso e globalizzato, la difesa dell’interesse nazionale – come dimostrano le tensioni tecnologiche tra Usa e Cina sul caso Huawei – necessita di una nuova strategia che metta al centro l’intelligence economica.
A crederlo è Andrea Manciulli, presidente di Europa Atlantica e senior fellow dell’Ispi, che in una conversazione con Formiche.net spiega cosa possono fare Italia ed Europa per difendersi dalle minacce cyber (e non solo) che caratterizzano la nuova era digitale.
L’arresto della numero 2 di Huawei Meng Wenzhou ha acuito nuovamente le tensioni sul versante tecnologico tra Washington e Pechino. Che cosa sta succedendo?
Quello con Huawei è un caso aperto da tempo, al di là dell’arresto. Il colosso cinese conduce, attraverso suoi prodotti di vario genere, una politica espansiva che può alterare gli equilibri di sicurezza in modo rilevante. Ed è una questione che non riguarda solo gli Usa, ma anche l’Europa.
In che modo questa espansione può creare problemi di sicurezza?
Strumenti con caratteristiche “dual use”, come quelli in questione, possono soddisfare le esigenze del cliente di turno, ma anche rappresentare uno strumento per certi versi molto invasivo. In passato ci sono stati svariati allarmi dei servizi d’intelligence su questo tema che diventa ancora più urgente affrontare dato l’avvento del 5G, una tecnologia strategica che giustamente gli Stati Uniti vogliono mettere al riparo da potenziali minacce. Ma è l’Occidente nella sua interezza che dovrebbe occuparsi di questi pericoli.
Chi mette oggi in pericolo l’Occidente?
C’è ormai una contraddizione alla quale ci siamo abituati e che riguarda il ruolo degli Stati nello spazio cibernetico. I Paesi più attivi dal punto di vista degli attacchi sono anche quelli più repressivi al loro interno per ciò che concerne l’utilizzo di social network e la circolazione di notizie. Di fronte a questo scenario si assiste a una fragilità dell’Occidente che deve preservare la libertà dell’individuo tipica della nostra società ma senza rinunciare a priori alla possibilità di contrattaccare. Altrimenti chi è più libero di attaccare e reprimere sarà più agevolato nel comprimere la democrazia in spazi a noi anche molto vicini. Ma ci sono anche altri pericoli.
Quali?
In questa nuova fase, soprattutto nei mercati finanziari, si sta delineando la presenza di attori il cui interesse non coincide più sempre del tutto con quello degli Stati, talvolta nemmeno di quelli a cui fanno riferimento. Questi attori hanno molte risorse economiche, il che li rende invasivi soprattutto a danno dei Paesi più deboli. Sarebbe giusto cominciare a porsi esplicitamente il problema di come rispondere a queste minacce. E il modo migliore per iniziare a farlo è aprendo una grande stagione di concertazione che unisca gli interessi dell’impresa con quelli che riguardano la sicurezza nazionale. Le insidie sono molte e in costante mutamento.
A proposito di mutamenti, come è cambiata la sicurezza nazionale dopo l’avvento del cyber space?
Il XXI secolo ha portato una nuova forma di conflitto, fatto di una dimensione che è cyber, ma anche finanziaria e di tutela degli interessi delle grandi aziende di Stato. Per questa ragione, anche nel nostro Paese servirebbe porsi il tema di come formare una élite in grado di agire in diversi spaccati della società e di affrontare questo problema che impatta nella vita di ogni cittadino. C’è una nuova dimensione della strategia che non va disconosciuta, ma affrontata. In questo ambito uno degli esempi virtuosi è senz’altro quello della Francia che, oltre ad avere un’intelligence economica dichiarata, ha anche una Scuola di guerra economica che consente di passare dalla teoria alla pratica.
Come si coniuga la difesa di un interesse nazionale moderno con una dimensione politico-economica sempre più globale?
Su questo c’è bisogno di aprire un dibattito vero. Cosa è oggi la difesa dell’interesse nazionale? Il tema è nato con gli Stati nazionali e si è sublimato con l’affermazione degli stati europei, ma era un’epoca nella quale economia restava abbastanza chiusa all’interno dei confini nazionali. Ciò determinava una visione statica di interesse nazionale. Oggi, invece, nella società della globalizzazione la difesa dell’interessa nazionale non dipende più solo da quanto un Paese fa tra i suoi confini, ma soprattutto da quanto riesce ad affermarsi al di fuori di essi. Questa caratteristica ha ha favorito Stati di grandi dimensioni o con una visione globale e ha sfavorito Paesi con lo sguardo rivolto al loro interno, come quelli europei.
Che cosa dovrebbe fare invece l’Europa?
Bisogna comprendere che se l’Unione Europea non aggregherà le proprie funzioni in ambiti come sicurezza e economia non avrà la capacità che aveva in passato di competere sul piano globale e dovrà rassegnarsi al declino.
Come si colloca l’Italia in questo scenario?
L’Italia, rispetto ad altri Paesi che hanno una retorica prevalentemente collocata nel passato, ha fortuna di essere uno Stato più giovane e dovrebbe sfruttare queste sue caratteristiche per giocare apertamente le sfide del futuro.
Come si può rafforzare l’intelligence economica nazionale?
L’Italia ha un’intelligence economica che lavora già molto bene per difendere il Paese dall’invasività esterna e anche per proteggere gli interessi nazionali fuori dai nostri confini. Proprio per questo dovrebbe ricevere maggiori risorse e lavorare con un orizzonte strategico più importante. Tuttavia credo che in un periodo come quello attuale, caratterizzato da tensioni che – come dimostrano i fatti recenti – sono destinate a crescere, ci sia bisogno di una struttura sempre più concertativa tra aziende e governo, all’interno della quale si condivida una nuova idea di interesse nazionale. Servirebbe un nuovo CASA (il Comitato di Analisi Strategica Antiterrorismo che ha il compito di favorire la condivisione, la circolazione, la valutazione e la quantificazione delle informazioni relative a minacce terroristiche interne ed esterne) dedicato alla sicurezza economica. Un passo al quale andrebbe affiancato un importante investimento sulla formazione di classi dirigenti che abbiano saldamente condiviso una scuola di amministrazione nazionale che formi esperti da inserire in vari spaccati della società. Il tema, naturalmente, non può essere condito da partigianeria, ma anzi serve che tutti facciano un passo indietro per mettersi al servizio dell’interesse nazionale. Gli anni che verranno necessitano di grande coesione.