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Macron promette per non cadere. Ma la Francia è allo sbando

Tredici minuti per “rasserenare” la Francia non possono bastare, ma quanto meno dovrebbero offrire l’immagine di un presidente che ha capito la lezione. Emmanuel Macron si è presentato in televisione ai suoi connazionali con la solita aria del giovane tecnocrate intenzionato ad impartire la lezioncina, evitando di rassicurare troppo per non sembrare un “debole”, ma mitigando la propria congenita arroganza per non apparire distante come sempre. Ha bacchettato i violenti, com’era giusto, ma senza affondare il coltello nella piaga; ha provato ad entrare in sintonia con il movimento del gilet gialli, ma non spingendosi al punto di riconoscerli come interlocutori politici. Sarebbe stato un cedimento che non rientra nel modo di pensare e di fare del presidente-monarca. E, dunque, come un ragioniere, ha tentato se non di “conquistare” i suoi contestatori, almeno di sedare il moto popolare con una serie di promesse che cozzano contro il suo ferreo europeismo.

Infatti, se dovessero essere attuate le misure annunciate, sforerebbe e di molto il deficit imposto dall’Unione e a quel punto passerebbe per un “populista” della più bell’acqua. Non diversamente dai dioscuri Salvini e Di Maio i quali avrebbero tutto il diritto di reclamare una parità di trattamento per l’Italia se alla Francia venisse assicurata la benevolenza comunitaria.

Macron, dunque, spingendosi, laddove la necessità lo ha portato, ma il cuore soffriva nel frenarlo, ha promesso – e si sottolinea “promesso” – un aumento del salario minimo fino a 1200 euro circa, la detassazione degli straordinari e della tredicesima, il blocco dell’aumento delle imposte sulle pensioni inferiori a duemila euro, la sospensione dell’aumento sui carburanti (che ha fatto da detonatore alla rivolta) ed ha invitato gli imprenditori a donare ai lavoratori un bonus di fine anno, naturalmente detassato.

Le misure annunciate da Macron dovrebbero avere l’effetto di raffreddare la protesta, ma nessuno è disposto a giurarci che andrà così. I gilet gialli si chiedono quanto durerà la tregua e quale sarà l’effetto delle promesse. Per molti di loro, l’aumento delle tasse sul carburante va abolito e non sospeso per poi riproporlo quando la rabbia sarà sbollita: il provvedimento, davvero incongruo per le esigenze di buona parte della Francia rurale, rappresenta un duro colpo all’economia familiare, soprattutto nelle regioni agricole dove i trasporti sono piuttosto carenti.

Ma c’è dell’altro che non convince nel discorso di Macron: la mancanza del benché minimo accenno all’abolizione dell’imposta sul patrimonio (che invece il suo primo ministro Edouard Philippe vorrebbe modificare sostanzialmente: da qui lo scontro tra i due che potrebbe portare ad una crisi di governo) e di altre misure fiscali favorevoli ai grandi patrimoni, mentre vengono confermate le tasse che hanno portato all’impoverimento del ceto medio. È su questi due estremi della questione economica che si gioca la partita.

Ha un bel dire Macron, riferendosi alle mobilitazioni dell’ultimo mese, che “Questa indignazione è condivisa da molti francesi”. E, come se poco o niente fosse accaduto, ha aggiunto: “Abbiamo risposto all’aumento della tassa sul carburante, ma servono misure profonde. La collera è giusta, in un certo senso”.

Che vuol dire? Per quanto ci si affanni a decifrare l’Amleto dell’Eliseo, quel che viene in mente è soltanto una prova teatrale per rabbonire i rivoltosi. Se davvero il presidente è convinto della giustezza e della liceità della collera, come lui l’ha chiamata, varerebbe seduta stante – e la Costituzione glielo permetterebbe – misure che vadano nel senso dell’abbassamento delle ragioni determinanti il carovita e favorirebbero una seria la lotta alla povertà agendo sull’occupazione e non sull’assistenzialismo. Ma per farlo dovrebbe rompere con chi ha costruito la sua fortuna politica, vale a dire i titolari dei grandi patrimoni, i liberisti che hanno visto crescere nelle pieghe della globalizzazione le loro già imponenti ricchezze, con la burocrazia di Stato elefantiaca che succhia risorse al welfare che annaspa.

Non basta, come ha fatto Macron, annunciare importanti ritocchi costituzionali per guadagnare qualche simpatia tra gli oppositori. Sarà un bene limitare i poteri del centralismo statuale e trasformare il sistema elettorale da maggioritario a due turni in proporzionale più o meno puro: probabilmente se ne gioverebbe la rappresentanza politica così ingessata, così insoddisfacente. Ma questi sono problemi che rimangono sullo sfondo di una crisi di legittimità derivante dal distacco tra il potere ed i cittadini i quali, non potendo contare su un sistema partitico squalificato e su dei sindacati impotenti ed antiquati, pensarono bene diciannove mesi fa di mettersi nelle mani di un tecnocrate, finanziare e burocrate di Stato (formato all’ENA) che prometteva di battersi contro le élite, trascurando di approfondire il non marginale particolare che era nel nome di altre élite, quelle che rifiutano la mediazione insomma, che Macron avrebbe disegnato i destini futuri della Francia in accordo con le politiche di austerità decise a Bruxelles (ora se le rimangerà, non potendo neppure più contare sul sostegno di Angela Merkel?).

Il sogno del giovanotto di Amiens s’è infranto contro la dura realtà di una società malata e disordinata. E lui non ha avuto altro da fare che imbracciare la ramazza ed ammucchiare i cocci. Comunque vada, Macron ha già segnato il suo passaggio nella Quinta Repubblica. Ed è probabile che abbia aperto, suo malgrado, le porte alla Sesta. Si cerca soltanto qualcuno che voglia attraversare la soglia. Di leader, al momento, capaci di tanto la Francia è drammaticamente carente.


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